storie
raccolta di testimonianze e racconti sugli abusi della psichiatria
OPPORSI AL TSO SI PUO’ E SI DEVE !
riceviamo e volentieri pubblichiamo, su richiesta dell’autore,
il suo racconto dell’esperienza vissuta in un reparto di psichiatria.
OPPORSI AL TRATTATAMENTO SANITARIO OBBLIGATORIO SI PUO’ E SI DEVE
di Valerio Citi
La mia disavventura con la psichiatria comincia un maledetto giorno di dicembre del 2013 quando, su forte insistenza di un parente che lavora presso la struttura ospedaliera della mia città e ha molta confidenza con i medici psichiatri di reparto, mi viene praticato un Tso del tutto ingiustificato, basato solo sul mio stato di evidente ebrezza e nulla di più. Io commetto un enorme errore che mi rovinerà l’esistenza: accettare con remissione senza oppormi. Il Tso mi viene addirittura ridotto da 7 giorni, come prevede la normativa, a soli 4, perché anche gli psichiatri sanno che dopo averci dormito su una sbronza passa e quindi era del tutto assurdo continuare a tenermi con la coercizione nel reparto. Questo però crea un annoso precedente che nei mesi successivi mi costerà molto caro.
Nella vita ho avuto due grandi disgrazie: avere entrambi i genitori malati di mente (secondo chi decide i criteri di tale patologia) e di aver cercato rifugio, per le loro continue assenze per ricoveri lunghi anche anni, nell’alcool. I miei ricordi d’infanzia sono per lo più legati all’odore di “piscio e segatura” che sentivo quando mi portavano a trovarli, perché “stavano male”, in non – luoghi che a me incutevano una gran paura.
Dopo quel maledetto giorno di dicembre anche io sono finito in quei luoghi che per tanto tempo avevo cercato di dimenticare.
Sono seguiti alcuni Tsv, sempre su spinta di alcuni familiari, e quando mi sono accorto che su di me era calata una gabbia era troppo tardi. Oltre alla sindrome da dipendenza da alcol, durante l’ennesimo ricovero, mi è stata affibbiata la stessa identica diagnosi che avevano i miei genitori: “disturbo bipolare”. Nessun criterio scientifico, nessuna analisi approfondita del paziente, solo che ingenuamente quando mi veniva chiesta l’anamnesi familiare io rispondevo con sincerità. E dunque mi è stato fatto un “copia – incolla” dei miei incubi peggiori, stavo varcando quella soglia verso il buio, dalla quale nè mia madre nè mio padre sono mai tornati indietro.
La malattia mentale secondo questi medici si trasmette da genitore a figlio come le patologie genetiche, niente importa più.
Durante i miei ricoveri ho subito ed ho assistito a soprusi, umiliazioni, ricatti. Se fossi credente definirei i reparti di psichiatria qualcosa di molto simile all’inferno sulla terra.
Data la mia diagnosi sono stato trattato farmacologicamente di conseguenza: timo – regolatori (volgarmente detti “stabilizzatori dell’umore”, come se l’umore di una persona dovesse essere regolato chimicamente e non dal naturale evolversi della vita e delle esperienze personali) e ansiolitici da cui adesso sono dipendente. Alla mia ferma opposizione ad assumere Depakin (acido valproico) per i suoi devastanti effetti collaterali, che avevo già constato coi miei occhi sui miei genitori, ho subito dei ricatti psicologici e delle vassazioni che faccio fatica anche solo a raccontare.
Ho avuto la fortuna però di incontrare anche delle persone giuste, a fatica ero riuscito ad uscire da questa gabbia, riuscendo persino a farmi chiudere la cartella clinica presso i Centri di Salute Mentale sul territorio presso i quali, quando non sei recluso in reparto, ti devi presentare giornalmente come se fossi in libertà vigilita.
Mi è stato proposto il metodo Hudolin (dallo psichiatra croato Vladimir Hudolin che tanto lavorò a fianco di Basaglia e riuscì, almeno in parte, a scardinare i pregiudizi della psichiatria classica), un approccio ai problemi alcol – correlati che vede il paziente non come un malato da trattare farmacologicamente, ma come un individuo facente parte di una comunità familiare e multi – familiare, che deve solo cambiare il suo stile di vita nei confronti dell’alcool per potersi godere la vita come meglio crede.
Sono stato in Veneto in una struttura hudoliniana con assoluta politica delle “porte aperte” e ho ottenuto risultati sorprendenti. La mia vita stava ricominciando lontano da alcool e psichiatria.
Ma quel maledetto giorno di dicembre, ormai lontano nel tempo e nel ricordo, mi presenta il conto: mentre ero seduto sul divano a guardare la tv, l’amica che mi stava ospitando a casa mi porge un’ordinanza di Tso firmata poche ore prima. La mia colpa? Aver avuto una cosiddetta ricaduta (cioé aver assunto alcool dopo molti mesi d’astinenza) e, sempre ingenuamente, averlo comunicato al mio medico del Ser.T, di cui avevo profonda stima e affetto. Non ho mai compiuto un singolo atto violento in vita mia, neanche sotto l’effetto dell’alcool, la mia unica colpa come detto è stata quella di accettare passivamente che la “gabbia psichiatrica” calasse su di me, perché così pensavo di far stare sereni i miei familiari.
Ma questa volta ho detto no, non potevano farmi questo proprio nel momento in cui stavo riacquisendo serenità e la mia vita stava ricominciando. Una settimana recluso in reparto, per un dispetto di una psichiatra, mi avrebbe lasciato una ferita troppo grande da rimarginare.
Non ho aperto alle forze dell’ordine, ho cercato di contattare un legale, ma invano. Dopo tre ore di vero e proprio assedio, la polizia in tenuta anti – sommossa è riuscita a entrare nel privato della mia casa, devastando tutto il mio piccolo mondo. Sono stato portato via ammanettato dietro la schiena da una decina di energumeni, come il peggiore degli assassini. Tutto il quartiere e numerosi giornalisti lì fermi ad assistere a questa scena surreale.
La vicenda per sommi capi la trovate qui:
http://iltirreno.gelocal.it/livorno/cronaca/2014/05/25/news/parla-dopo-la-fuga-da-psichiatria-torno-e-denuncio-i-soprusi-1.9289372
Una volta rinchiuso in reparto, come da prassi, sono stato pesantemente sedato per via endovenosa e messo a tacere. Ma la mattina dopo ho avuto uno dei pochi colpi di fortuna che mi sono capitati nella vita: l’ago della flebo con cui mi stavano sedando era fuoriscito durante la notte e potevo così riacquisire lucidità e forza per camminare. All’ora del vitto mi sono diretto verso la porta che dà sul retro dove ci sono gli uffici medici e quindi a una porta antipanico che significa libertà. Come ribadito non sono mai stato un violento ma nei calci a piedi scalzi che ho dato a quella porta c’era la forza di tutte le persone che hanno subito un abuso simile e non lo hanno mai potuto denunciare. Al terzo calcio, con un frastuono che ha fatto tremare tutto il reparto, e la coscienza di chi aveva potuto permettere un tale abuso, la porta si è spalancata. Ho avuto l’istinto di scappare di corsa, ma me ne sono andato camminando, a testa alta, perché io non mi sentivo colpevole di niente.
Ho passato dei giorni tremendi, nascondendomi di giorno e andando in cerca di acqua e cibo la notte, i quotidiani locali dicevano che “era ricercato da tutte le forze dell’ordine il ragazzo in fuga che si era barricato in casa”. Ma presto gli amici e i parenti che mi conoscono per quello che sono, un ragazzo buono che ha avuto un sacco di avversità nella vita ma senza mai cagionare danno a nessuno, mi hanno contattato, il mio nome è comparso sul giornale. Non mi sentivo più solo. Mi ha chiamato il Collettivo Antipschiatrico Artaud. No, non ero affatto solo. Mi è stata espressa una solidarietà che mi ha commosso e mi ha dato la forza di portare avanti una battaglia. Non una semplice rivalsa personale ma una lotta per i diritti di tutti, costituzionalmente sanciti.
E’ stata messa su una raccolta fondi che mi ha permesso di rivolgermi a dei legali a cui la mia vicenda ha creato “una notevole crescita sia sul piano professionale che su quello umano”. L’opposizione, come prevede la normativa, all’ordinanza di Tso è stata depositata, ed ora ho piena fiducia nella giustizia. E questo è solo l’inizio.
Il sistema psichiatrico è una cosa talmente più grande di me che se ci rifletto su mi sembra una lotta contro i mulini a vento. Ma adesso sento il dovere di andare fino in fondo, fosse l’ultima cosa che faccio, perché opporsi al trattamento sanitario obbligatorio si può e si deve.
LA STORIA DI MALIKA
Questa è la storia di una giovane donna marocchina (all’epoca dei fatti incinta di 6 mesi) che nel 2004 ha subito un TSO, durante uno sfratto, con potenti antipsicotici.
Malika, e soprattutto sua figlia che oggi ha 6 anni, stanno ancora pagando le conseguenze di quei tragici fatti; infatti la bambina soffre di una malformazione cerebrale strettamente connessa alla somministrazione di Largactil e Farganesse in gravidanza.
Sotto un articolo che spiega i fatti della vicenda, in particolare le cose avvenute nel 2004 quando le fu fatto il TSO-sfratto; dopo due anni è stata processata per calunnia e poi prosciolta.
Negli anni successivi c’è stato un susseguirsi di ‘errori giudiziari’ volti ad archiviare il caso e una serie di tentativi di copertura anche da parte dei servizi sanitari perfino con cartelle cliniche contraffatte.
movimento di lotta per la casa- Firenze
collettivo antipsichiatrico a.artaud- Pisa
LA STORIA DI MALIKA
Questa è la storia di una giovane donna, incinta di sei mesi, mamma di una bimba di 10 anni, di origine marocchina e cittadina italiana da quindici anni. Trovandosi in difficoltà a pagare 1200 euro di affitto al mese, si rivolge ai servizi sociali per avere un aiuto economico. L’assistente sociale, anziché proporre una soluzione abitativa, le fissa un appuntamento con lo psichiatra. Siamo a febbraio del 2004.
Intanto il tempo passa senza che la situazione cambi. Il giorno dello sfratto, fissato per il 3 dicembre, nonostante l’ufficiale giudiziario avanzi l’ipotesi di rinviare il provvedimento di un mese, l’assistente sociale insiste per una soluzione inadeguata e crudele: il ricovero coatto in psichiatria!
Quindi arriva un’ambulanza e, nonostante la donna mostri un certificato medico che le prescrive riposo per il rischio di aborto, viene bloccata in un angolo da cinque uomini, gettata sul letto e, tenuta ferma, le vengono praticate due iniezioni pesantissime per sedarla. Si saprà, diversi giorni dopo, che i farmaci in questione sono due neurolettici (antipsicotci), Largactil e Farganesse, quest’ultimo è un antistaminico che amplifica e potenzia l’effetto degli antipsicotici, con il risultato di una sedazione immediata. Questi farmaci, che provocano in genere gravi conseguenze, possono avere, come sottolineato anche dal Ministero della Salute, “effetti dannosi sul feto in qualsiasi periodo della gravidanza. E’ importante tenere sempre presente questo aspetto prima di effettuare una prescrizione in una donna in età fertile. Questi farmaci possono alterare la crescita e lo sviluppo funzionale del feto, o avere effetti tossici sui tessuti fetali”(fonte OMS).
Subito dopo, con una diagnosi di “agitazione psicomotoria dovuta allo sfratto”(oltre al danno la beffa!), la donna viene ricoverata nel reparto di psichiatria a S. M. Nuova con una proposta di T.S.O. In realtà il medico e gli infermieri dell’ambulanza, oltre a tutti i presenti, complici del violento sfratto, hanno messo in pratica un vero e proprio sequestro di persona! Non si può parlare di trattamento sanitario obbligatorio infatti perché: non c’è stata una visita psichiatrica, non é stato convalidato il T.S.O. da un secondo medico del servizio pubblico, come d’obbligo di legge, quindi mancava ovviamente anche il provvedimento del Sindaco e la conseguente notifica. Come se tutto questo non bastasse, la persona non è stata informata né su quali psicofarmaci le hanno forzatamente iniettato, né sulla struttura di ricovero.
Al risveglio, diverse ore dopo, lo psichiatra di turno in reparto non le comunica il regime di ricovero e, mentendo, dice che deve rimanere lì per sette giorni come se fosse in T.S.O., compiendo così un abuso in atti d’ufficio. Dopo tre giorni di reclusione, le conseguenze dei maltrattamenti subiti le provocano una minaccia d’aborto: passerà dodici giorni in ginecologia a Torregalli.
Purtroppo Malika subisce ancor oggi le conseguenze di quei tragici fatti, e soprattutto sua figlia, che oggi ha 6 anni, e che soffre di una malformazione cerebrale strettamente connessa (la perizia è del dott. Montinari) alla somministrazione di Largactil e Farganesse in gravidanza.
Nel 2004 fu aperto un primo procedimento per “violenza privata”, e nel 2006 un secondo procedimento per “lesioni personali in concorso di reato”.
Oggi i due procedimenti sono stati riaperti, dopo numerose richieste di archiviazione da parte del giudice, che non ha mai chiesto di approfondire i fatti, dopo innumerevoli e inspiegabili errori di notifica delle richieste di archiviazione (si tenga conto che per fare richiesta di opposizione all’archiviazione ci sono solo 10 giorni), avvocati che non hanno mai richiesto le cartelle cliniche attestanti una visita psichiatrica (che, lo ricordiamo, non è mai stata fatta a Malika prima dello sfratto/TSO), cartelle cliniche contraffatte, con date sbagliate ecc. Se non siamo un popolo di incompetenti sorge il dubbio che questo caso si voglia insabbiare.
Ci sono in gioco poteri ben più forti dei diritti di una immigrata e di sua figlia. Servizi sociali, medici, industrie del farmaco, non si sa chi difende chi, ma Malika e sua figlia sono state lasciate sole da tutti.
la morte di roberto melino. giugno 07
a distanza di 2 anni dalla morte di Roberto Melino
avvenuta, nel giugno del 2007,nel reparto di psichiatria
dell’ospedale S.Giuseppe di Empoli
pubblichiamo una toccante testimonianza
di chi ha vissuto con lui il dramma
dell’internamento.
collettivo antipsichiatrico antonin artaud-pisa
www.artaudpisa.noblogs.org
La morte di Roberto Melino.
13 giugno 2007. Reparto psichiatrico dell’ospedale di Empoli.
Si chiamava Roberto Melino. Ricordo che era giovane, simpatico e incazzato. Di una gentilezza squisita. Occhiali da vista, sovrappeso, più che parlare sussurrava, a volte era difficile capirlo, soprattutto quando il trattamento riservatogli era particolarmente pesante. Difficilmente terminava una frase senza interrompersi per ansimare. Nelle sue parole c’era lucidità assoluta, aveva lavorato per una cooperativa di servizi e sosteneva di avere subito ingiustizie dal direttore. Quantunque potesse avere avuto ragione, e questo non lo so, chi mai avrebbe ascoltato le sue parole? Quale forma di rivendicazione può risultare credibile quando viene da un internato nel reparto psichiatrico di un ospedale?
Siamo diventati amici, anch’io gli parlavo delle ingiustizie subite. Due matti che solidarizzano su tematiche politiche e sociali. Naturalmente innocui, resi ancora più informi dai farmaci che ci somministravano. La sua inquietudine ammansita dalla gentilezza degli infermieri, ma soprattutto dalle bombe bioniche che lo demolivano. Non so quale sostanza periodicamente gli somministrassero, so che quando rientrava nella stanza in cui si fumava non era più lui. La sua vivacità era scomparsa e con lei la rabbia che lo contraddistingueva. Abulico, apatico, non parlava, non rispondeva.
Rimaneva greve nell’aria il suo respiro sempre più affannoso.
Ma non si rendevano conto di sparare ad un uccellino con un bazzoka?
Mi regalò un orologio, non li ho mai portati, per compiacerlo lo misi al polso.
Una sera, in un impeto di rabbia lo gettai. Fu un gesto di cui mi sarei pentito: quell’oggetto mi sarebbe stato un suo caro ricordo.
La sera quando si coricava, a quanto capii, doveva assumere una posizione particolare che ne facilitasse il respiro. Quando ci salutammo l’ultima volta fu come sempre in maniera cordiale.
– A domani -. Ma per lui non ci sarebbe stato un domani.
La mattina dopo morì.
Ci fecero stare seduti mentre davanti a noi l’agitazione saliva.
I volti degli infermieri non riuscivano a non tradire la tensione, il via vai nella sua stanza diveniva sempre più frenetico, passò un’ora, forse due, non riesco a determinare il tempo.
Inutili tentativi di rianimazione, noi seduti ed attoniti, noi innocenti spettatori di uno spettacolo che non doveva accadere. Con la certezza della morte lo spettacolo finì.
Il suo respiro, quel respiro che anche nelle ore di veglia a volte assomigliava ad un rantolo, si era fermato.
Il pianto della madre lacera l’aria del reparto, è struggente, verrebbe voglia di buttarla fuori.
Sono sconvolto: l’avevo salutato la sera precedente, avevamo parlato, lo consideravo un amico.
Non voglio più stare lì dentro, voglio uscire, mi concedono di farlo con un amico con cui pranzo.
Non è una concessione che viene fatta facilmente, ma nell’eccezionalità del momento uno zuccherino al matto si può dare.
Ai miei occhi era un ragazzo sensibile. Forse agli occhi di qualcun altro non era che un ammasso di cellule mal distribuite, con dei neuroni che scorazzavano in territori non ortodossi.
Le domande rimangono sospese.
Perché, viste le sue difficoltà di respirazione non è stato trasferito in un altro reparto?
Sarà stata compatibile la terapia farmacologica con le sue difficoltà respiratorie?
Saranno stati eseguiti preventivamente degli esami per verificarne la compatibilità?
Saranno reperibili questi esami?
Dai referti dell’autopsia potranno venire alla luce delle certezze?
Come è possibile che io, che ero fuori di testa, riesca a fare una ricostruzione così lucida dei fatti e gli operatori a suo tempo non si siano accorti di ciò che stava accadendo?
La mia è una testimonianza opinabile, mi sono limitato ad esporre ciò che ho visto e che ho sentito, non ho prove che suffraghino ciò che poi, in realtà, mi viene da pensare.
Volendo si possono ascoltare le testimonianze degli altri pazienti rinchiusi in quei giorni che non potranno che confermare le sue gravi difficoltà respiratorie.
Certo, anche loro sono matti come me, ma perché la loro parola dovrebbe valere meno di quella di uno psichiatra?
Anche gli psichiatri sono esseri umani, tutti sbagliano, magari con Roberto hanno commesso qualche errore. Non si può affermare né negare.
Certo, non è piacevole il brivido di inquietudine che avverto quando ripenso a questa maledetta storia. Chiedo solo verità, verità oggettiva per un ragazzo di 24 anni che ho visto morire sotto ai miei occhi. Ma vivendo in questo paese una domanda sorge spontanea:
prevarrà la volontà politica di non approfondire?
Per me c’è solo una verità, mia, personale, che può essere non condivisibile.
Roberto non doveva morire.
Mardollo Gianluca
vivodamorire
PERCHE’ NON RESTI “COME SE NULLA FOSSE ACCADUTO”
riceviamo e volentieri pubblichiamo la testimonianza di Arianna
che ci scrive che spera tanto che almeno attraverso il nostro sito
la sua storia possa non passare sotto silenzio; perchè tutto non
resti’ "come se nulla fosse accaduto"
collettivo antipsichiatrico a.artaud-pisa
Ho
35 anni e da circa 25 sono affetta da un disturbo psichiatrico cronico e non
trattabile (Disturbo ossessivo compulsivo).
Tale
disturbo comporta di per sé la coazione a lunghissimi rituali di pulizia e
lavaggio con i quali ormai convivo da anni e pur avendo pesantemente
influenzato la mia vita pratica e di relazione mi permette comunque di vivere
da sola da alcuni anni e non ha mai costituito fonte di pericolo o
preoccupazione per me o altri.
Nel
2004 per una lunga e complessa situazione che non sto a dettagliare ma fondamentalmente di vessazioni e
intimidazioni subite da parte di una famiglia di condomini del palazzo in cui
vivo e scaturita unicamente dal loro pregiudizio e dalla loro intolleranza nei
confronti della mia persona – che per mia stessa ammissione sapevano sofferente
di una patologia mentale – mi sono trovata a perdere il mio equilibrio ma
soprattutto in situazioni esistenziali totalmente compromesse, tali da indurmi
a minacciare un gesto anticonservativo nel giugno 2005.
Ho subito allora un TSO perfettamente giustificato e legittimo, ma questo e’
stata per me (che mai avevo dovuto subire ricoveri, mai tentato il suicidio in
tanti di malattia) l’inizio di una spirale allucinante di soprusi, violenze
psicologiche e ricatti da parte dei medici curanti (parte al Centro Salute
Mentale cui mi ero rivolta ed ero seguita da qualche tempo poi e da quel
momento in reparto).
Per riassumere ho subito da allora tre TSO successivi, di cui uno di 30 giorni,
senza che vi fossero i requisiti legali prescritti dalla legge 180 e con
evidenti vizi anche formali nell’ultimo.
Questo perché la drammatica situazione che vivevo e che raccontai sin dal primo
ricovero e che da un anno non riuscivo a denunciare alle autorità causa la
perdita di credibilità dovuta alla mia condizione patologica certificata,non e’
stata mai minimamente creduta ne’ appurata, bensì da subito e definitivamente
bollata come sintomo di un disturbo paranoide del pensiero, in comorbilità con
il mio disturbo ossessivo (per lunghi anni diagnosticato invariabilmente e
trattata da professionisti privati.) E inoltre, avendo io stessa
insistentemente sollecitato i medici a tentare un colloquio di mediazione con i
miei vicini di casa, ho ottenuto il risultato di subire un TSO con la sola motivazione
di essere stata "troppo insistente e fastidiosa" nel
telefonare al CSM per spiegare tale esigenza, preoccupata per il mio equilibri
psicofisico e il reale rischio per la mia incolumità che da un anno correvo nel
mio appartamento.
Poi il colloquio di mediazione in effetti ci fu, io non venni ammessa ad esso
per volere del Primario; per qualche tempo i vicini cambiarono atteggiamento,
ma dopo 6 mesi tutto ricominciò e questa volta i vicini cominciarono a recarsi
da quel Primario adducendo come da sempre pretesti calunniosi e irreali per
paventare una presunta mia pericolosità sociale e farmi rinchiudere
temporaneamente in reparto.
Questo nell’aprile 2006, quando venni attirata con un pretesto
in reparto e pur avendo constatato tutti, Primario compreso, le mie buone
condizioni in quel frangente, il Primario richiese con false dichiarazioni un
TSO immediato, chiudendo semplicemente le porte. E tra lo sbigottimento e
l’impotenza di tutto il personale infermieristico e dei pazienti, che mi
espressero solidarietà e cercarono di trovare delle soluzioni per tutelarmi se
non liberarmi.
Infine dopo le dimissioni i vicini di casa mi aggredirono fisicamente con
minaccia di morte, ma prima che potessi denunciarli chiamarono il Servizio
Psichiatrico Urgente e i carabinieri sostenendo che io ero l’autrice
dell’aggressione.
Il medico del Servizio Psichiatrico dopo aver a lungo parlato con me non
ritenne di dover prendere provvedimenti sanitari, ma consigliò ai miei
familiari di starmi vicino e cercare di risolvere la situazione con i vicini.
Ma 3 giorni dopo, ancora sotto shock, vidi la mia psichiatra del CSM
presentarsi senza preavviso al mio domicilio per eseguire un TSO,senza sapere
lei stessa motivarlo a me o ai miei familiari, se non con il fatto che aveva
ricevuto un ordine dal solito Primario del reparto.
Peraltro la Dottoressa rientrava quella mattina in servizio dopo un periodo di
ferie e non era quindi al corrente – così io pensavo – ne’ di quanto mi era
accaduto, tanto meno delle mie reali
condizioni in quei giorni, poiché non vi era stato alcun contatto tra me e lei
o con il CSM da parecchi giorni.
Eppure si presentò con una richiesta di TSO già firmata, riportante una
condizione psichiatrica del tutto falsa atta a legittimare l’intervento. E il
rifiuto di accettare le terapie, sebbene in quel frangente nessuno mi propose
alcun farmaco o colloquio terapeutico, nemmeno se ne parlò e ve ne fu il tempo.
Mio padre, medico internista, era presente e testimone di tutti i fatti, ma non
ha saputo opporsi o tentare di reagire per il forte shock.
Quando poi giunsi in ospedale e chiesi spiegazioni, il Primario in termini
denigratori e accusatori mi disse che la mia vicina di casa si era recata da
lui per descrivere l’aggressione (nei termini invertiti) e aveva chiesto di
prendere un provvedimento restrittivo. Io non avevo testimoni al momento
dell’aggressione, ma di nuovo spiegai come erano andate le cose, peraltro sconvolta dal fatto
che avessero da 2 anni ignorato le mie richieste di tutela fino al rischio
verificatosi di perdere la vita per mano di queste persone. Il Primario, sempre
con un atteggiamento di palese sostegno, giustificazione e solidarietà con i
miei vicini, ribattè in quell’occasione che "se mi avessero
effettivamente uccisa avrebbero fatto bene, lui sarebbe stato contento".
Questa fu solo una delle tante esternazioni pesanti e spesso illogiche (di
fronte al personale che ne prese atto) che subii da lui durante tutti i
ricoveri eccetto il primo. La sua
condotta da un punto di vista umano e deontologico fu così marcatamente
scorretta da creare imbarazzo al personale e alla fine, per fortuna, indusse un
medico del suo staff a prendere posizione e esautoralo dallo seguire in
specifico il mio caso, che venne passato al collega ("Ci siamo resi
conto che c’e’ un problema con il Dott.X, temiamo che questo possa
compromettere il suo equilibrio”)
Inutile
dire che nell’eventualità’ di un procedimento legale a parte mio padre e un
infermiere non più n servizio in quel reparto e distante anche geograficamente,
nessuno di queste persone informate dei fatti sarà disposta a parlare; sono
piuttosto certa riguardo agli infermieri, che me l’ hanno già in parte
comunicato, esprimendo anche timore nell’essere coinvolti (anche se lo saranno
d’ufficio, come presumo).
Durante i ricoveri ovviamente ho dovuto sottostare a una terapia diversa come
dosaggi dalla mia abituale e soprattutto mi venne prescritto un neurolettico
indicato per le patologie deliranti a dosaggi altissimi e per via
intramuscolare a rilascio lento (depot). Questo creava effetti collaterali
fisici molto penosi ed evidenti.
Ma dopo le dimissioni dovevo ogni 15 giorni presentarmi al CSM per ricevere
l’iniezione e una volta che credetti di poter contrattare con i medici almeno
una somministrazione per via orale, meno dannosa, fui letteralmente sequestrata
all’interno del CSM, presa con la forza e sottoposta all’iniezione, mentre un
medico sbarrava le porte.e mi parlava in toni derisori, come a un bambino. Io
peraltro sapevo da tutte le esperienze precedenti che era del tutto inutile
chiamare le forze dell’ordine, acriticamente esecutrici di qualsiasi decisione,
legale o non, dei servizi sanitari pubblici.
All’atto delle dimissioni dall’ultimo ricovero nuovamente il Primario volle
prescrivere quella terapia rivelatasi dannosa oltre che non efficace per il mio
disturbo e lo fece contro il parere di mio padre medico e della collega
psichiatra del CSM che erano presenti. Alle richieste di spiegazione di mio
padre, soprattutto sull’effettiva utilità e meccanismo scientifico del farmaco
suddetto, il Primario dimostrò con risposte vaghe di non conoscerne neppure
l’emivita. Eppure ribadì che l’unica condizione a cui potevo essere dimessa era
di nuovo questa terapia ogni 15 giorni, perché " Bisogna fare braccio
di ferro con la paziente e qui decido io".
Però se non altro dopo quelle dimissioni il farmaco creò effetti più gravi,
tali da portarmi a rischiare lo scompenso cardiaco; così mio padre prese
finalmente coraggio e informalmente diffidò tanto il CSM quanto il reparto dal continuare
ad occuparsi del mio caso, pena il ricorso a vie legali.
Immediatamente tutte le interferenze nella mia vita, i controlli che subivo da parte del CSM al mio domicilio
(preciso che dal punto di vista legale non ho mai infranto alcuna legge e sono
incensurata) e soprattutto le violazioni di domicilio ingiustificate (ogni
volta che i vicini chiamavano il SUP) cessarono e io ritornai ad essere un
cittadino in possesso dei suoi diritti, soprattutto quelli costituzionali e
della persona.
Purtroppo il danno che ho riportato sul piano biologico, ma
ancor più morale ed esistenziale e’ immane. A tutt’oggi persistono i sintomi di
un Disturbo da stress post traumatico non risolto del tutto (incubi, terrori,
ansia continua, crisi di panico e depressione). Per dare l’idea del progressivo
deteriorarsi delle mie condizioni di vita posso dire, con vergogna, che non
sono in grado di lavare il mio corpo dal 2005 a causa delle coercizioni subite
qui in casa e in ospedale verso la mia abitudine al lavaggio compulsivo, che mi
hanno prodotto idrofobia e altre fobie (soprattutto essere invasa in casa da
ulteriori interventi) e comportano chiaramente un’invalidazione assai più grave
di quella già grave che vivevo dopo anni di cronicità.
Gli effetti si sono ripercossi a macchia d’olio sui miei familiari, ormai
anziani, sui loro ritmi di vita alterati dall’esigenza costante di farsi carico
non solo delle mie esigenze materiali ma della mia tutela, legale e fisica. E
per questo sono sorte incomprensioni e problemi nell’ambito allargato delle
loro famiglie d’origine.
Peraltro i vicini (sentendosi legittimati dai medici e probabilmente sapendo
che sarei stata da loro intimidita con lo stesso TSO a non sporgere denuncia,
cosa che in effetti non sono poi riuscita a fare) mi hanno poi querelata con la
falsa accusa dell’aggressione, anche se ora dopo il loro trasloco hanno rimesso
la querela. E l’onere economico per la mia difesa legale è andato ovviamente a
carico della famiglia, giacché sono da sempre inabile al lavoro.
Aggiungo che alla mia richiesta delle cartelle cliniche
effettuata alcuni mesi fa,quella dell’ultimo e più visibilmente illegale
ricovero , è stata dal Primario dichiarata smarrita (all’interno del reparto:
secondo l’archivio non e’ mai giunta a distanza di due anni nella preposta sede
di archiviazione!).Egli ha sposto regolare denuncia di smarrimento e la
Direzione Sanitaria dell’Ospedale mi ha dato notizia ufficiale per iscritto.
Senza contare che solo alla consegna delle altre cartelle
relative ai TSO precedenti ebbi modo di scoprire la diagnosi che egli aveva
formulato…a quanto pare anche all’insaputa della mia psichiatra curante al CSM
che si dichiara tuttora discorde. Del resto gli estenuanti accertamenti che ho
poi eseguito privatamente a me spese
ripetutamente disconfermano tale diagnosi, rilevando sempre solo il mio
Disturbo ossessivo compulsivo (purtroppo con sintomatologia aggravata dalle
“cure” subite!)
Oggi,
a distanza di 2 anni, essendo effettivamente cessata anche la minaccia dei
vicini, recentemente trasferitisi altrove, io sento il bisogno di informare le
autorità di quanto accaduto; e non solo quale riconoscimento a me stessa,
veramente terapeutico,della reintegrazione del mio diritto civile ma perché
oggi lo considero un dovere morale, nonostante l’irrimediabilità del danno
subito, nei confronti di altri pazienti presenti e futuri. E non soltanto
ovviamente di quel reparto nello specifico.
Eppure
il muro di omertà (anche da parte del personale allora in servizio), i giochi
di potere politici che sottendono alle cariche sanitarie, la difficoltà e la
fatica di sottopormi a innumerevoli perizie, il fatto che nessuno psichiatra
oggi è veramente disposto a pronunciarsi, ben sapendo che questo andrebbe a
mettere a rischio la credibilita’ di un collega, mi svuotano ogni giorno di più
di fiducia e speranza e perpetuano il dolore e la difficolta’ di convivere ogni
giorno con i danni subiti.
Arianna
UN MESSAGGIO DI SPERANZA AI SOPRAVISSUTI DELLA PSICHIATRIA
Riceviamo e
volentieri pubblichiamo questo messaggio di
una persona che è risucita a uscire dalla morsa della psichiatria.. Abbiamo deciso di
rendere pubblica questa lettera con l’intento di mettere in luce i veri meccanismi con
cui opera la psichiatria e nella speranza che sempre più persone trovino il coraggio di denunciare gli abusi subiti.collettivo antipsichiatrico
a.artaud-pisa
UN MESSAGGIO DI
SPERANZA AI SOPRAVISSUTI DELLA PSICHIATRIA
se potete pubblicare
sul sito antipsichiatrico il mio messaggio alle persone che ancora sono
dentro a questo orribile tunnel…un metodo per fuggire
c’è ….sembra ridicolo ma io
racconto la mia storia personale mi sono dovuta
nascondere per anni , scappando da una città all’altra, pur di non essere
braccata dalle siringhe e dalle pillole misteriose dei medici mi sono improvissata
un giorno barista, un mese impiegata, un altro anno commessa , pur di
fuggire e stare al riparo anche con sconosciuti , che sono sempre meglio di
questi infami medici che dicono di conoscerti da anni sono scomparsa,, ho
chiuso i contatti anche con i miei famigliari , perchè i parenti purtroppo sono
la prima scorciatoia che i medici usano per farti rientrare nel loro
giro vizioso giocando sull ignoranza ,e sul posto appunto che
conservano di lavoro, basta una semplice
telefonata a casa tua da uno di questi mercenari , anche mentre tu sei fuori a
comperarti in quel momento un cd o fare la spesa,che ti ritrovi nel abisso
degli psicofarmaci.rischiare è l’unica
cosa , ma è un rischio che ne vale la pena ,,, se sismettono i farmaci di
colpo , non abbiate timore…non c’ è tortura
peggiore che una convulsione da farmaco ogni 10 giorni e bava alla bocca piuttosto che alzarsi
alla notte e sognare ancora questi vampiri che ti tengono con la forza
per infilarti aghi nelle braccia….non è importante se
nessuno sa dove siete, non lo sapevano comunque nemmeno prima…….qua fuori non siamo
soli, in verità ci sono tanti di quei sopravissuti che girano che nemmeno ce
lo possiamo immaginare, ma questo non importa, la cosa che importa è
che piu lottiamo per combattere la psichiatria più lei vince….il buio l’abbiamo già
visto per tanti anni , non resta che ritrovare la luce…qualunque cosa vi
inventiate , andrà sicuramente bene, perchè lontano dagli psichiatri tutto
torna a profumare di muschio bianco.
R.F.
Pillole di antipsichiatria, riflessioni su una storia vissuta
Ho
vissuto un’esperienza di sofferenza interiore e di psichiatria e ne
sono uscita.
Rivolgermi
alla psichiatria è stato il mio più grande errore: sono
stata danneggiata fisicamente e la mia vita è stata quasi
rovinata e ora faccio parte di un collettivo antipsichiatrico per
informare le persone su quello che realmente fa la psichiatria,
affinché possano evitare di subire abusi come quello che ho
subito io.
Io non posso dare una formula per stare bene ma posso
raccontare la mia esperienza, come io ne sono uscita e le mie
riflessioni. Non voglio neanche dire che quello che penso sia la
verità, perché questo è appunto il mio pensiero
personale.
In
un momento di "depressione" mi sono rivolta ad uno
psichiatra per risolvere le mie sofferenze, ma ogni farmaco che
assumevo peggiorava la mia situazione. Quando assumevo Risperdal
vedevo tutto nero, stavo malissimo interiormente, non riuscivo
neanche più ad alzarmi dal letto, i miei sensi erano
intorpiditi, piangevo continuamente. Inoltre mi sentivo anche male
fisicamente e svenivo spesso. Ho conosciuto anche altre persone che
mi hanno confermato di avere avuto gli stessi sintomi provocati dal
Rispedal. Anche l’Anafranil non ha fatto altro che rendermi confusa.
A
causa di queste "cure" ho anche sviluppato un disturbo
fisico irreversibile.
Dalla psichiatria sono stata solo
danneggiata. Stavo sempre peggio e dopo circa 1 anno di "cure"
ero arrivata alla convinzione che oramai non sarei mai più
stata bene, che la mia vita sarebbe stata per sempre una sofferenza
continua. Ma non era così.
Innanzitutto le emozioni, i
pensieri e i comportamenti non sono malattie e quindi non possono
essere curate con i farmaci, che sono semplicemente sostanze
psicoattive come le droghe e non possono fare altro se non sopprimere
alcuni sintomi.
In
psichiatria sintomi e comportamenti sono definiti malattie solo sulla
base che questi non corrispondono a ciò che è
socialmente accettato o comunque considerato nella media. I sintomi e
i comportamenti, a prescindere dal fatto che siano considerati giusti
o sbagliati, possono avere cause molto diverse fra loro. La
psichiatria non ha nessuna prova del fatto che chi si comporta in
modo diverso dagli altri presenti alterazioni del cervello.
La
preoccupazione principale della psichiatria non è neanche
alleviare i sintomi e le sofferenze, ma rendere le manifestazioni di
queste sofferenze socialmente accettabili.
Spesso
la situazione viene peggiorata dai farmaci perché sotto
l’effetto di questi diminuisce la
capacità del soggetto di
avere una visione chiara della realtà circostante e quindi
anche la capacità di agire in maniera adeguata per risolvere i
problemi che sono la causa reale della sofferenza interiore.
A
causa di questo mi sono trovata completamente isolata e non volevo
più uscire di casa. Sono cambiata in seguito all’assunzione di
farmaci, ero come drogata, così la mia famiglia non mi
comprendeva più, il mio compagno non mi comprendeva più.
Ero totalmente sola perché nessuno mi poteva capire. Ero
convinta che la mia vita fosse finita.
Mi
sono ripresa solamente dopo che ho compreso affondo cosa è la
psichiatria.
Allora ho scalato i farmaci, ma non perché
ormai stavo bene: solo perché ho capito che continuando a
prenderli sarei stata ancora peggio. Inoltre, se tanto dovevo
continuare soffrire, questo potevo farlo benissimo senza farmaci. Era
un illusione continuare a credere che gli psicofarmaci avrebbero
alleviato le mie pene. Era un illusione anche pensare che uno
psichiatra o uno psicologo potessero aiutarmi. Questa gente non può
aiutare nessuno perché attraverso la diagnosi considerano i
pensieri e comportamenti come frutto di processi patologici, non si
preoccupano di conoscere la persona e di capirla, né di
ascoltarla, perché la giudicano irrazionale. Come si fa ad
aiutare una persona se ci si rifiuta di vederla com’è?
La
diagnosi è un pregiudizio e dal quel momento ogni pensiero e
ogni comportamento è considerato sintomo di malattia.
Poi,
in fondo, ho anche capito che nessuno poteva aiutarmi perché
nessuno poteva essere nella mia pelle, nessuno poteva sentire quello
che io sentivo, conoscermi meglio di me stessa e comprendere
dall’esterno le mie motivazioni reali. In fin dei conti l’essermi
rivolta alla psichiatria era stata una rinuncia alla mia
responsabilità sulla mia vita, mi aspettavo che fosse un
altro, un "esperto" a risolvere la mia sofferenza, e questo
in un certo senso mi sollevava dalla fatica e dalla responsabilità
di essere io stessa in prima persona ad impegnarmi per migliorare la
mia vita. Sono stata meglio solo quando ho ripreso in mano la mia
vita, quando ho accettato il fatto che nessuno dall’esterno poteva
aiutarmi.
Per
uscire da questa situazione è stata importante anche
l’accettazione della mia stessa sofferenza, la comprensione che
questa non era una patologia, ma una normale reazione emotiva a certe
circostanze.
Appena
iniziato lo scalaggio ho cercato di cambiare il mio stile di vita.
Non sono stata subito meglio, è stato un processo graduale: mi
ci è voluto quasi un anno per uscire da quello stato di
prostrazione. Questo è stato importante per venirne fuori: non
fermarmi mai, lottare contro quella voglia di abbandonarmi, di
isolarmi e di restare al letto. Cercare di stare in mezzo alla gente
e ricominciare a d interessarsi alla vita. Riprendere tutti quegli
interessi che avevo abbandonato. Interessi culturali, sportivi, ecc.
L’ho fatto con immensa fatica, soffrendo.
Per
mesi a causa dei farmaci arricciavo il naso in continuazione e
nonostante questo andavo tra le persone, in associazioni culturali
dove mi sforzavo di dialogare con gli altri, anche se non ne avevo
voglia. Ero perfettamente consapevole che loro mi compativano a causa
del mio volto, ma mi relazionavo con loro alla pari, considerandomi
una persona in grado di dire la propria opinione come tutti gli
altri. Non cercavo dagli altri comprensione, pietà, aiuto o
amicizia. Mi ponevo completamente alla pari.
Così
sono uscita dalla "depressione" e dall’isolamento.
Inoltre
credo che sia stata molto importante l’attività fisica, che
aiuta a liberarsi dalle tossine, ad alzare l’umore, a non restare
continuamente concentrati e ripiegati sulla propria sofferenza.
L’attività fisica aiuta a vivere nel presente ed a riprendere
contatto col proprio corpo, mentre gli psicofarmaci in un certo senso
separano dal corpo, rendono il soggetto anestetizzato e addormentato,
i sensi ovattati.
Non
c’è una soluzione standard che va bene per tutti, perché
come i problemi sono personali e diversi per ognuno così le
soluzioni. Per me stato lo yoga, ma per qualcun altro può
essere qualunque altra cosa gli piaccia. Bisogna chiedersi che cosa
ci piace, a partire dalle piccole cose fino a quelle più
grandi. Io ero arrivata a stare così male che non me ne
fregava niente neanche di scegliere che cosa preferivo mangiare.
Questo è trascurare completamente se stessi, invece bisogna
amare se stessi e prendersi cura della propria vita in prima persona,
proprio come faremmo con il più caro dei nostri amici.
Io
ne sono uscita così, da sola senza l’aiuto di nessuno, con uno
sforzo immenso e continuo, ma non perché sono stata brava: ho
solo cercato di non morire, di non "affogare", lottando in
modo disperato.
Prima condanna in italia per la psichiatria
(NDR feb 2016)”detta sentenza a causa di successivo intervento della prescrizione non è stata confermata nella Superiore Corte di Cassazione per il solo intervento di detta circostanza..”
Donatella Marazziti, Psichiatra dell’equipe di
Cassano condannata a sei mesi di carcere
Il 5 marzo 2007 si è conclusa la lunga trafila legale nei confronti di DonatellaMarazziti, nota psichiatra toscana. La dottoressa è stata condannata per lesioni colpose, provocate dalla somministrazione impropria di psicofarmaci in sperimentazione, su una bambina di undici anni, che le si era rivolta nel ’99 accompagnata dalla madre (l’accusante A.Triolo) per un problema di obesità.
La cura somministrata
consisteva in due psicofarmaci non ancora in commercio: il fevarin,
un antidepressivo, ed il topamax, un antiepilettico.Farmaci in
sperimentazione dal dottor Cassano nel reparto psichiatrico di Pisa e
dal dottor Masi all’Istituto neuro-psichiatrico infantile “Stella
Maris” di Calambrone. Questi farmaci non avrebbero potuto essere
somministrati per usi diversi da quelli per cui erano testati, ma la
Marazziti lo ha ugualmente prescritto alla bambina alla stregua di un
farmaco anti-obesità, senza informarla che si trattasse di un
antiepilettico e di un antidepressivo e che il dimagrimento fosse
solo un suo effetto collaterale.
L’etica professionale in
questi casi richiederebbe invece quantomeno il consenso informato.
Dopo cinque mesi di cura il trattamento non ha portato alla paziente
alcun calo ponderale, bensì gravi disturbi quali sonnolenza,
incubi, emicranie, depressione, eccitabilità ed un episodio di
allucinazione, seguiti a due anni didistanza da calcoli renali,
disturbi alla vista e colicisti, effetti collaterali riscontrati nel
farmaco, ma non imputabili ad esso visto il ritardo della comparsa
dei sintomi.
La madre , insieme ai
collettivi antipsichiatrici che l’hanno sostenuta, si è vista
riconoscere le lesioni causate da questa terapia impropria e
aggressiva solo dopo otto anni di lotte giudiziarie, scontrandosi con
l’indifferenza di magistrati e forze dell’ordine, sempre ossequiosi
nei confronti dell’autorità medico-psichiatrica.
Si tratta della prima
condanna in Italia rivolta alla psichiatria; un primo riconoscimento
della fallacia e della pericolosità dei trattamenti
psicofarmacologici; una bacchettata nella mano pesante degli
psichiatri. Ma non è ancora stata riconosciuta la
sperimentazione illegale dell’antiepilettico e dell’antidepressivo;
rimangono all’oscuro i legami di questa vicenda con un modus operandi
diffuso nella rete psichiatrica toscana e italiana, e con i guadagni
economici connessi alla sperimentazione e alla vendita di farmaci,
vera piaga della medicina ormai da molti anni.
“Roba da psichiatri”
Con
la pubblicazione di questo racconto il collettivo Antonin Artaud si
pone come megafono della storia di una giovane donna che da un
momento all’altro ha visto scatenare contro di sé una violenza
inaudita da parte della psichiatria.
La
ragazza è stata condotta in un reparto psichiatrico contro la
sua volontà e contro quella dei suoi familiari, e sottoposta a
un bombardamento farmacologico tale da farle rischiare la vita, che
le ha provocato danni fisici irreversibili.
Abbiamo deciso di rendere
pubblica questa vicenda con l’intento di mettere in luce i veri
meccanismi con cui, in pratica, opera la psichiatria e nella speranza
che sempre più persone trovino il coraggio di denunciare gli
abusi subiti.
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Sono
una ragazza di 33 anni ed abito in Versilia.. Nell’ottobre 2005 ho
subito un T.S.O.
Alcuni
mesi prima mi ero rivolta ad uno psichiatra privato di Massa, il
dottor G.A., per un malessere provocato da una serie di eventi
stressanti che si erano verificati nella mia vita familiare e
lavorativa. Il dott. G.A. mi prescrisse Anafranil 75 mg, 2 compresse
al giorno, Lexotan, 20-30 gocce al bisogno. Mi sentivo un po’ meglio
ma il Lexotan su di me non aveva effetto: o non avevo bisogno di
prenderlo o, se mi trovavo in una situazione che generava
preoccupazione, non era efficace. Così nei mesi successivi
torno un paio di volte dal dott. G.A. chiedendogli di prescrivermi un
ansiolitico diverso. Entrambe le volte mi ha risposto: "No, non
cambiamo farmaco, continua a usare il Lexotan, ne puoi prendere anche
50-60 gocce fino a 3-4 volte al giorno se ne senti il bisogno, tanto
prima che ti avveleni con il Lexotan ne puoi bere anche 2 boccette".
Era presente anche il mio fidanzato ( infatti nei mesi successivi è
capitato che anche lui in situazioni emotivamente difficili assumesse
Lexotan).
Passa
un po’ di tempo, durante il quale io non prendo tutte le gocce che il
dott. G.A. mi ha consigliato, perché mi sembra una dose
esagerata.
Il
10 ottobre io e mia madre abbiamo una discussione, un chiarimento
come succede in tutte le famiglie, niente di particolare: non ci
picchiamo, non volano i piatti. In quell’occasione io prendo le 60
gocce di Lexotan e mia madre vedendomi farlo, teme che possano farmi
male; io le dico che è stato lo psichiatra. a dirmi che potevo
prenderle e lei lo chiama per chiedergli se era vero. Lui per
telefono nega, forse rendendosi conto di avermi consigliato una cosa
assurda, per evitare una figuraccia. Dice a mia madre che avrebbe
mandato il 118 e parlato con il medico dell’ambulanza dicendogli di
prescrivermi un altro farmaco, e riaggancia senza darle la
possibilità di rispondere.
Dopo
10 minuti arrivano sotto casa mia due ambulanze, una per me e una per
mia madre, come spiegato la sera stessa a mia madre da uno psichiatra
del reparto. La dott.ssa A.B. di Massa entra in casa parlando al
telefono col dott. G.A.; si rivolge a mia madre e a mia nonna in modo
aggressivo, ordinando loro di uscire dalla stanza. Io rimango lì,
seduta sul divano, mentre la dott.ssa A.B. continua a parlare per
telefono con lo psichiatra. Non mi guarda, non mi visita, non mi
chiede niente, non mi chiede cosa è successo né come mi
sento. Io chiamo mia mamma per chiederle di portarmi il telefono e
lei rientra nel salotto. La dott.ssa A.B. la affronta urlando: "Cosa
ci fa lei qui, le ho detto di andarsene!" Mia madre si arrabbia
e le risponde: "No, a questo punto se ne va lei". La
dott.ssa minaccia: "Guardi che chiamo i carabinieri" e mia
madre: "No, i carabinieri li chiamo io!", riuscendo a far
uscire la dott.ssa. Ma le ambulanze non se ne vanno: rimangono lì,
davanti al cancello.
Mia
madre, spaventata dall’atteggiamento dei sanitari, chiama un suo
conoscente, il maresciallo dei carabinieri L.L., che viene insieme a
un collega. Il maresciallo mi propone di chiamare il suo medico di
famiglia e io accetto, perché dopo la discussione e la venuta
delle ambulanze sono spaventata: il comportamento della dott.ssa A.B.
mi aveva terrorizzata. Arriva il medico, dott. G.L. e si rende conto
che la situazione non è poi così grave; mi fa mezza
fiala di Valium. Mentre il medico mi fa l’iniezione i carabinieri
dicono alla dott.ssa A.B. di andarsene perché non c’è
bisogno di lei, non c’è bisogno di niente.
Le
ambulanze se ne vanno, ma dopo circa 10-20 minuti tornano con un
provvedimento A.S.O. (accertamento sanitario obbligatorio) firmato
dal sindaco e richiesto dalla dott.ssa A.B., medico non psichiatra
(del 118 di Massa, mentre io sono della provincia di Lucca, cioè
fuori dalle sue competenza territoriali)
Non
c’era l’urgenza di un di fare un A.S.O. altrimenti perché non
lo aveva proposto il dott. G.L.? La situazione era calma, io non
rifiutavo le cure, il medico era venuto a casa mia facendomi
un’iniezione: mancavano le condizioni necessarie per un ricovero
ospedaliero.
L’A.S.O.
in ospedale verrà trasformato in T.S.O. (trattamento sanitario
obbligatorio) con la motivazione di "agitazione psicomotoria".
Dopo essere stata portata via da casa con la forza, mentre non stavo
facendo niente, da una dottoressa che si è presentata senza
essere stata chiamata, "agitazione psicomotoria" è
proprio il minimo che potessi avere!
Mia
madre non vuole far entrare il personale dell’ambulanza così
loro forzano il cancello, entrano con la forza e la legano, braccia e
gambe, per impedirle di difendermi. Mia nonna è spaventata e
grida, ma un infermiere le dice di stare zitta. La dott.ssa A.B. mi
dice che devo seguirla, altrimenti mi avrebbe portata via con la
forza. Salgo sull’ambulanza e piango, sono spaventata e piango, dico
che voglio dormire , che voglio essere lasciata in pace e voglio
dormire. Sull’ambulanza mi viene fatta una fiala di Largactil.
Mi
portano in psichiatria, mi lasciano lì e nessuno mi dice
niente. Io piango, sono spaventata, sia a causa della scena violenta
avvenuta poco prima a casa, sia perché non capisco per quale
motivo sono stata portata lì in quel modo, senza aver fatto
nulla. Non posso uscire e non so quando potrò uscire. Gli
psicofarmaci che ho assunto non mi calmano ed anzi pregiudicano la
mia capacità di comprendere quanto sta succedendo così
come la mia capacità di esprimermi chiaramente.
Da
questo momento non ricordo più niente fino a parecchie ore
dopo, quando mi sveglio legata al letto senza sapere il perché
e senza neanche il coraggio di chiederlo. Cerco di restare calma; non
reagisco, non chiedo niente ed accetto tutto, perché capisco
che reagire potrebbe essere pericoloso. Sono terrorizzata. Mi
lasciano ancora a lungo legata al letto, fino alla sera, all’orario
delle visite, quando mi tolgono le cinghie perché mia madre
non mi veda in quel modo. La fanno entrare dopo averle perquisito la
borsa, accompagnata da due guardie giurate con la pistola bene in
vista.
Mia
madre si rivolge subito ad un avvocato ed il 13 ottobre verrò
dimessa.
Durante
il T.S.O. vengo trattata con psicofarmaci, prevalentemente
neurolettici, soprattutto il primo giorno: Largactil, Tavor, Valium,
Risperdal, Stilnox….
Naturalmente
nessuno si preoccupa di capire se la mia agitazione possa in realtà
essere dovuta ai farmaci precedentemente assunti: le benzodiazepine
(Lexotan, Valium, Tavor) possono provocare stati d’agitazione e i
neurolettici (Largactil, Risperdal) possono anch’essi provocare forti
stati di agitazione psicomotoria (acatisia) e addirittura portare a
delirio e allucinazioni. Non mi hanno fatto esami del sangue volti a
chiarire se la situazione potesse essere dovuta a reazioni paradosso
agli psicofarmaci, ma hanno continuato a somministrarmene fino a
stendermi.
In
reparto dormo costantemente e sbavo continuamente. Nei momenti in cui
mi risveglio mi trovo tutti i capelli appiccicati al viso e al
cuscino, tutti pieni di saliva.
All’orario
dei pasti non mi è permesso alzarmi dal letto per mangiare
nella sala, come fanno tutte le altre degenti. Non posso uscire dalla
stanza. Solo il quarto giorno, poco prima di essere dimessa, mi viene
permesso di pranzare nella sala, così chiedo ad una ragazza
come si trovi in quel reparto e lei mi risponde: "E’ come un
carcere".
Durante
il T.S.O. nessun medico mi visita. La terza sera passa il primario,
M.D.F. seguito da altri psichiatri, a cui dice riferendosi a me:
"Questa ragazza non ha niente, ha solo litigato con la madre"
e passano oltre.
Sempre
la terza sera vedo un’altra cosa che mi sembra un po’ strana: passa
l’infermiera con il carrello dei farmaci dove ci sono tutti i
bicchierini con le pasticche e i nomi delle ricoverate. Dentro i
bicchierini c’è sempre lo stesso farmaco in diverse dosi:
Risperdal, un neurolettico. Così tutte assumevamo lo stesso
farmaco, a prescindere da quali fossero i disturbi lamentati e dal
perché ci trovassimo lì.
II
quarto giorno, quando vengo dimessa, vengo sottoposta ad un colloquio
con la dott.ssa M.G.. Lei mi fa diverse domande e io rispondo con
calma. Diversi mesi dopo, quando ritiro e leggo la mia cartella
clinica, mi accorgo che lei ha selezionato e strumentalizzato le mie
parole, rigirandole in modo da giustificare una diagnosi di disturbo
ossessivo compulsivo.
Esattamente
in quell’occasione dissi che la mia vita nell’arco dell’ultimo anno
era cambiata completamente e che si erano verificate molte situazioni
problematiche. Ero costantemente preoccupata, al punto che non
riuscivo a smettere di pensare a come avrei potuto risolvere tutte
quelle situazioni nuove che si erano presentate: la mia mente era
sempre occupata nella ricerca di una soluzione per i miei problemi
pratici. Tutti questi problemi mi avevano buttato giù di
morale e per questo mi ero rivolta al dott. G.A.. Raccontai
di come la meditazione, disciplina che praticavo da anni, mi fosse di
grande aiuto in quel periodo. Questa consiste in pratiche di
concentrazione volte a calmare il pensiero che è
indisciplinato, tendiamo cioè a pensare e reagire in modo
automatico secondo modelli precostituiti ed abitudinari. Mediante
questo allenamento è possibile imparare a pensare in modo
attivo, slegato dai modelli abitudinari di pensieri e reazioni, al
fine di risolvere in modo creativo i problemi che si presentano in
base alla situazione presente, adottare soluzioni nuove a nuovi
problemi, anziché vecchie soluzioni a nuovi problemi.
Leggendo
la cartella clinica mi accorgo anche che sugli appunti del 10 ottobre
ci sono delle cose che io ho detto il 13 ottobre alla dottoressa
M.G.: mi sembra improbabile se non impossibile che io abbia detto le
stesse cose e con le stesse parole in due momenti diversi.
Vengo
dimessa con un prescrizione di Risperdal, 7,5 mg al giorno, un
dosaggio anche abbastanza alto di un farmaco pericoloso, che tra
l’altro non è neanche adeguato alla diagnosi (di un disturbo
che non ho!). Naturalmente non vengo avvertita dei rischi, non mi
viene data alcuna informazione sul farmaco, che mi viene consegnato
direttamente dalla dott.ssa e dalla cui confezione manca il foglietto
illustrativo.
Sempre
al momento della dimissione vengo informata, insieme a mia madre e al
mio fidanzato, che mi è stata fatta una puntura e che dovrò
tornare lì a ripeterla. Tale iniezione nella cartella clinica
non è stata annotata!
Subito
prima di essere dimessa viene a parlarmi anche il primario: dice di
aver litigato per telefono con il dott. G.A. e che non devo prendere
mai più Anafranil, che DEVO
scegliere uno psichiatra della struttura e andare lì a
curarmi. Dice che DEVO prendere
assolutamente il Risperdal (strano perché la sera prima aveva
detto che io non avevo niente!). Mi parla con un tono di voce
piuttosto autoritario, ripetendo le cose più volte come se si
rivolgesse ad una persona che non capisce, mentre io ero solo
intontita dai farmaci. Dice al mio fidanzato che non deve farmi
tornare a casa, che deve tenermi lontano da mia madre e che se non si
prende questa responsabilità non mi faranno uscire (ma che ne
sa dei miei rapporti con mia madre, visto che non aveva mai parlato
né con me né con lei?).
Tornata
a casa sto molto male, sia a causa della violenza subita, sia a causa
dei farmaci che continuo a prendere credendo di averne bisogno.
Sbavo,
non riesco a parlare correttamente, quando cammino inciampo spesso e
cado; incontinenza, insensibilità al dolore, la luce mi da
fastidio e i miei sensi sono ovattati; mi viene febbre e una
bronchite che durerà fino alla metà dell’estate 2006.
Non riesco a far niente, non trovo la forza di alzarmi dal letto,
vestirmi e uscire; non riesco più a pensare in modo attivo, ad
applicarmi nella ricerca di soluzioni pratiche ai miei problemi
quotidiani. Non riesco a concentrarmi su niente, a leggere e neanche
a guardare programmi televisivi. Piango spesso, perché la mia
vita è completamente cambiata in modo violento e improvviso in
seguito al T.S.O.. Ho delle macchie marroni nell’occhio destro e
tutta la parte sinistra del viso è eccessivamente rilassata e
cadente, mentre la parte destra è contratta; ho spasmi intorno
agli occhi e quando parlo storgo la bocca verso destra.
Stavo
sempre peggio e non avevo idea che quelli fossero effetti collaterali
del Risperdal che provoca ansia, tristezza, sofferenza interiore
molto forte e mancanza di voglia di agire.
Ho
continuato a prendere il Risperdal per circa 1 mese.
Durante
questo periodo il mio fidanzato, vedendo che stavo peggiorando a
vista d’occhio, si rivolse al reparto per chiedere cosa dovevo fare,
ma venne fermato da un infermiere che gli disse: "Non la
riportare assolutamente qui, perché te la ricoverano di nuovo
e alla fine te la rovinano del tutto".
Dopo
un mese trovo un libro, "Chimica per l’anima", capisco cosa
sono i neurolettici e interrompo di colpo e di mia volontà
l’assunzione del Risperdal.
Stavo
molto male e mi ero rivolta nuovamente al dott. G.A. Nella confusione
dell’accaduto e a causa dei farmaci che limitavano la mia capacità
di comprensione degli eventi, non avevo capito che era stato lui a
farmi ricoverare, io credevo fosse stata la dott.ssa A.B.
Ci
torno diverse volte e lui cerca di mettere me e il mio fidanzato
contro mia madre e il mio fidanzato contro di me. Ci fa credere che
la dott.ssa A.B ha richiesto l’ASO a causa del comportamento di mia
madre. Continua a insistere sia con me che con il mio fidanzato che è
mia madre la causa del mio malessere, che mi avrebbe rovinato la vita
(cosa che diceva spesso anche prima del T.S.O.) e che è lei
che deve essere curata.
Insiste
così tanto che alla fine io e il mio fidanzato convinciamo mia
madre a fare una visita con lo psichiatra che ci consiglia: un certo
dott. B.A. Mesi dopo leggerò sulla mia cartella clinica il
nome dello psichiatra che ha richiesto il T.S.O. mentre ero in
reparto: il dott. B.A., lo stesso amico del dott. G.A. da cui avevamo
portato mia madre! Ripensandoci, ricordai come tale dott. B.A.
durante la visita con mia madre sembrasse molto imbarazzato: io non
lo avevo riconosciuto, ma lui probabilmente si ricordava di me.
Il
dott. G.A. insisteva anche su un’altra cosa: io dovevo andare via da
casa di mia madre. Cercava di convincere il mio fidanzato a vendere
la sua casa a Massa per prenderne una per me ad Ortonovo, dove lui,
così disse, aveva il controllo del 118. Gli disse
letteralmente: "Così, se la porta ad Ortonovo, ce l’ho
sotto la mia cappella"; questo potrebbe anche significare "sotto
il mio controllo", ma è anche un doppio senso osceno
perché in dialetto cappella significa glande. Mi soffermo su
questo particolare poiché lo psichiatra mi aveva già
fatto domande strane in passato, del genere "Ma tu desideri il
tuo fidanzato? Non è che hai fantasie sessuali verso uomini
più anziani di te, figure paterne, che ti diano un senso di
autorità e potere?". Queste cose le avevo anche riferite
al mio fidanzato, ma lui, plagiato com’era, mi rispondeva che secondo
lui erano domande normali, che ero io a trovarle strane "Perché
mi fisso, perché sono ossessiva compulsiva", come gli
aveva insegnato a dire il dott. G.A..
Il
mio ragazzo era preoccupato per me e lo aveva chiamato per telefono
diverse volte, a mia insaputa, chiedendogli cosa poteva fare per me,
come mi poteva aiutare (io piangevo sempre ma lui non poteva sapere
che la causa erano i neurolettici). Egli gli aveva risposto che lui
non poteva fare niente per me, "Che la cosa migliore era
lasciarmi nelle sue mani, perché solo lui poteva curarmi,
perché io ero gravemente malata e non mi rendevo conto della
mia malattia. La scelta migliore sarebbe stata lasciarmi, altrimenti
io avrei rovinato anche la sua vita, tanto oramai io non sarei stata
più bene, sarei costantemente peggiorata, e le persone malate
di mente distruggono la vita a chi gli sta vicino."
L’ultima
volta che vado dal dott. G.A, c’è una signora in sala
d’aspetto: è in cura da lui da 10 anni con psicofarmaci
neurolettici; racconta diverse cose sulla sua vita e su come l’ha
curata il dott. G.A.. Sembra innamorata di lui! Quando il dottore
arriva io, già insospettita dalle parole di questa donna, noto
che i due hanno un modo di parlare strano, eccessivamente
confidenziale, come se ci fosse tra loro qualcosa che va al di là
del normale rapporto che si instaura tra un medico e una paziente.
Quindi collego diverse cose tra loro e quando parlo col dottore porto
il discorso sul T.S.O., fingendo di incolpare mia madre e
conducendolo così ad ammettere che era stato lui a farmi
finire in psichiatria: lo ammette sia davanti a me, sia poco dopo,
quando faccio entrare mia madre.
Racconto
tutto al mio fidanzato e decido di non tornare più a quelle
visite: il mio fidanzato, convinto dallo psichiatra durante una
telefonata avvenuta subito dopo quest’ultima visita, mi lascia e
rimaniamo separati per alcuni mesi. Diversi mesi dopo, quando il mio
fidanzato capisce cosa era successo veramente telefona di nuovo al
dott. G.A. dicendogli: "Ma cos’ha fatto! Ha fatto il TSO alla
mia ragazza e le ha rovinato la vita. Ha rovinato anche il nostro
rapporto, per colpa sua ci siamo lasciati". Il dottore gli
rispose con un tono di presa in giro: "Oh, mi dispiace, mi
scusi", Il mio fidanzato gli disse: "Ma guardi che noi la
denunciamo" e G.A. rispose: "Fate pure. Tanto io sono una
persona potente e la sua ragazza l’ho fatta passare per matta e
nessuno le crederà mai.".
Mi
rivolsi ad un altro psichiatra raccontandogli di stare male a causa
del TSO: questo faceva finta di credermi ma non mi credeva. Stavo
molto male: tutto quello che era accaduto era stato un grande trauma
e la mia vita era completamente cambiata. Malgrado l’abuso subito non
mi rendevo conto di quanto fosse pericoloso il mondo della
psichiatria e continuavo a pensare che con me avevano commesso un
errore, che avevo incontrato gli psichiatri sbagliati, che si era
verificato un malinteso iniziale che aveva portato al disastro.
Continuavo a cercare lo psichiatra giusto, il farmaco giusto.
Le
umiliazioni che ho subito da parte dei medici sono innumerevoli:
concludevano tutti che se mi avevano fatto il TSO e dato i
neurolettici voleva dire che ero malata. Partivano da questo
pregiudizio e non c’era assolutamente nessun modo di spiegare come
erano andate le cose. Mi prescrivevano sempre nuovi farmaci:
Cymbalta, Anafranil, Nopron, Tavor, Valium, Xanax, Lamictal,…. Si
verificavano continuamente incomprensioni ed equivoci che potevano
espormi al rischio di altri trattamenti dannosi e non necessari.
Questo
è continuato fino all’agosto 2006. In quel periodo ero ormai
convinta che non sarei mai più stata serena e felice, che la
mia vita era finita e che tutto ciò che mi rimaneva era
soffocare la mia sofferenza attraverso il Tavor che mi permetteva di
sopravvivere, almeno finché avesse funzionato.
Ho
cominciato ad informarmi a proposito dei farmaci attraverso internet
e mi sono resa conto che abusi come quello che avevo subito io, o
anche peggiori, succedono continuamente in psichiatria. Ho visto come
molte persone stiano male a causa degli psicofarmaci. Attraverso un
libro sono venuta a conoscenza della storia della psichiatria, della
sua ideologia e dei metodi brutali da essa adottati nel corso dei
secoli.
È
stato uno shock, piangevo continuamente. È stato come se,
oltre alle mie sofferenze, mi fossero piombate addosso anche quelle
di milioni di persone danneggiate dalla psichiatria nel corso dei
secoli e nel presente.
Un
medico a cui ho raccontato l’abuso subito mi ha creduto. Gli dissi
che volevo smettere gli psicofarmaci perché non volevo più
assolutamente avere contatti con la psichiatria così mi ha
fatto uno schemino per scalare i farmaci.
Smettere
i farmaci è stato come un salto nel buio, perché avevo
paura di averne bisogno, ma a quel punto la mia convinzione era che
se tanto dovevo stare male, potevo farlo benissimo anche senza
psicofarmaci e senza psichiatria. Invece con il passare dei mesi sono
stata progressivamente meglio: non sono più triste né
disperata né spaventata né ansiosa e non penso più
che la mia vita sia finita.
Psicologicamente
sto bene. Soprattutto non sono più drogata dai farmaci, ho
recuperato la mia lucidità così come la mia capacità
di interpretare correttamente gli eventi e il mio autocontrollo. Ho
ricominciato a vivere e a coltivare i miei interessi e adesso ho
tantissimi amici che mi stimano e che, conoscendomi bene, non
riescono a comprendere come sia potuta accadere a me questa vicenda
così assurda. Anche il rapporto con il mio fidanzato, che il
dott. G.A.. aveva rovinato, è tornato soddisfacente, grazie
alla mia determinazione di far chiarezza sull’accaduto e di
riprendere in mano la mia vita.
Comunque
a distanza di 2 anni dal T.S.O. continuo a soffrire di movimenti
involontari del volto e talvolta anche degli arti che sono stati
causati dai neurolettici. Spesso, a causa di questi spasmi, mi mordo
l’interno della bocca durante la masticazione, procurandomi ferite.
Inoltre rischio di soffocare, poiché cibi e pasticche mi vanno
per traverso, a causa della riduzione della capacità di
controllare i miei movimenti volontari.
I
medici che mi hanno visitato per questi disturbi mi hanno detto che
molto probabilmente oramai non passeranno più. Discinesia
tardiva e distonia tardiva. Non esistono neanche cure specifiche per
ridurre questi movimenti che sono molto fastidiosi, insistenti e
accompagnati da dolore tipo nevralgia.
Questi
spasmi rendono tutte le mie ore di veglia senza pace, senza riposo;
danneggiano la mia immagine e mi è molto più difficile
trovare un lavoro (io ho lavorato in un negozio ed ho esperienza come
commessa): molte persone a cui mi sono proposta, vedendo le smorfie
sul mio volto, mi hanno trattato con eccessiva gentilezza, una
gentilezza compassionevole, dopo di che non mi hanno richiamato.
Magari
molte persone mi potrebbero giudicare "malata psichica" a
causa di questi movimenti, non sapendo in realtà che sono
stati i farmaci a provocarli; e poi anche qualora lo sapessero
penserebbero che siccome ho preso i farmaci probabilmente ne avevo
bisogno.
MA
NON SONO IO A DOVERMI VERGOGNARE PER QUESTA FACCIA DA MANICOMIO!
Ciò
influenza negativamente la mia vita sociale e lavorativa, presente e
futura, nonché la qualità della mia vita. La
meditazione, che io praticavo da moltissimi anni e che era per me un
elemento di arricchimento, non potrò più praticarla a
causa di questi spasmi. Così come non potrò più
coltivare un’altra delle mie passioni, lo snorkeling, non potendo
sopportare la maschera sul volto ed avendo perso, dopo il T.S.O., la
capacità di nuotare.
LA
MIA VITA È COMPLETAMENTE CAMBIATA, CAMBIATA PER SEMPRE. HO UN
DANNO PERMANENTE, PERCHÈ? PERCHÈ MI HANNO "CURATO"
CONTRO LA MIA VOLONTÀ!!!
Anche
per cercare di capire cos’era questo disturbo ho dovuto subire
moltissime umiliazioni dai medici. Mi sono rivolta a diversi
neurologi e ne ho dovuti girare parecchi prima di trovarne uno
disposto a fare gli accertamenti. Uno di loro, dopo cinque minuti,
sulla base del fatto che avevo preso per un periodo antidepressivi e
per un altro neurolettici, mi chiese se avevo il disturbo bipolare!
Ad un altro, che mi aveva fatto la stessa scena, chiesi come si fosse
permesso di farmi una diagnosi dopo 5 minuti solo basandosi sui
farmaci che avevo preso e senza considerare che il TSO era stato un
errore. Mi rispose che se me lo avevano fatto sicuramente avevano
ragione, "Sono sicuro che lei è matta e che di TSO gliene
faranno ancora tanti nella vita, anzi se non se ne va glielo faccio
fare io".
~
~ ~ ~ ~
La
psichiatria ti toglie la dignità.
Ti
possono fare veramente di tutto perché sanno che non puoi
difenderti. Tutto quello che dici o che fai non ha più alcun
valore, anzi tutto viene strumentalizzato per essere usato contro di
te, come ulteriore prova della tua "malattia mentale". I
trattamenti ti possono venire imposti con la forza e tu non li puoi
discutere né rifiutare, perché questo è
considerato rifiuto della terapia e ulteriore segno di "malattia
mentale". Non puoi dire che un determinato farmaco ti fa male
perché sei considerato "malato mentale" e quindi non
in grado di capire di cosa hai bisogno (come se potessero sapere
meglio di te come ti senti!). Se poi dici che non sei malato di mente
ma che stai male per qualche situazione contingente allora sei ancora
più grave perché non ti rendi conto della tua
"malattia". La tua vita non ti appartiene più e se
subisci delle violenze queste non sono poi così facili da
dimostrare, perché sei screditato, perché sei
considerato il "matto" che va a raccontare di aver subito
un ingiustizia da parte del suo psichiatra, il quale è
considerato autorevole, attendibile e di indubbia moralità. Il
tuo "delirio di persecuzione" sarà un ulteriore
prova della gravità della tua "malattia",
un’ulteriore scusa per sottoporti a ulteriori trattamenti.
È
facile entrare in questo meccanismo anche per cose banali e rimanere
coinvolti in un susseguirsi di circostanze da cui si potrebbe anche
non uscire mai più, anzi da cui spesso non si esce mai.
Quando
dobbiamo superare momenti difficili della vita, la società, le
persone che ci stanno vicine, le opinioni autorevoli ci insegnano che
si può ricorrere all’aiuto di uno psichiatra e degli
psicofarmaci, per superare il periodo. Ci viene insegnato che le
emozioni negative sono malattie, non normali risposte dell’uomo agli
eventi esterni. Ci viene insegnato che si deve essere sempre contenti
e soprattutto attivi, tirare avanti in qualsiasi circostanza ed
essere come gli altri ci vogliono altrimenti siamo "malati"
e ci si deve rivolgere ad uno psichiatra.
LE
EMOZIONI NEGATIVE NON SONO MALATTIE.
L’abuso
psichiatrico è una violenza che investe il soggetto in tutti i
piani dell’essere: fisico, mentale, sociale, emotivo, etc.. Penso che
sia una delle esperienze peggiori che si possono fare nella vita. È
una totale privazione del diritto di gestire la propria vita; è
peggio del carcere: non si è accusati di un reato ma di un
pensiero, non c’è un processo, non si ha diritto ad una
difesa.
Loro
vogliono chiamarsi medici dell’anima ma sono come poliziotti della
mente. IL LORO FINE NON E’ IL BENESSERE DEL PAZIENTE, MA IL CONTROLLO
E LA REPRESSIONE DELLE MANIFESTAZIONI ESTERNE DELLE SUE SOFFERENZE.
Ascoltano
i loro pazienti a partire da una diagnosi fatta superficialmente e
questa diagnosi costituisce un pregiudizio, perché non si può
assolutamente "vedere" chi ci sta davanti quando partiamo
dalla convinzione che ogni pensiero e ogni comportamento siano frutto
di un processo psicopatologico.
GLI
PSICHIATRI PRESCRIVONO TRATTAMENTI CHE DISTRUGGONO FISICAMENTE I
PROPRI PAZIENTI E LO FANNO CONSAPEVOLMENTE !!!
LORO,
SONO “SANI DI MENTE” ?!
L’Analista Analizzato: La patologia del “dissenso”
Come collettivo antipsichiatrico pubblichiamo il racconto
della storia personale di Lucia Maria Catena e la recensione del suo
libro "l’analista analizzato".Ci sembra giusto e
importante dare spazio e voce alle persone che hanno subito abusi in
psichiatria e che vogliano come noi lottare per smascherare gli
effetti nefasti e nocivi che la psichiatria produce sull’intera
società.
L’Analista Analizzato:
La patologia del “dissenso”
A distanza di anni, non so
ancora chi forse in Cielo mi ha aiutata, ma se non avessi avuto quel
barlume di lucidità, che all’epoca, contro tutti e contro
tutto, mi fece scegliere liberamente e consapevolmente di risolvere i
miei gravissimi problemi personali, senza alcun aiuto farmacologico e
nessun supporto psicoterapico, non sarei ancora in vita.
Sono venuta a contatto con
gli psicofarmaci e con il mondo della psichiatria, per caso, quando
ignara di tutto, stavo preparando l’esame di diritto amministrativo
alla Facoltà di Giurisprudenza di Palermo. Mio padre, violento
in famiglia da sempre, alcolista da qualche tempo, finì in
ospedale in gravissime condizioni per morirvi dopo pochi mesi. Io,
per molti anni, fin da bambina, avevo abusato del cibo, all’interno
della mia famiglia violenta e distruttiva, ingozzandomi
ripetutamente.
Mi indirizzarono da coloro
che, secondo molti, mi avrebbero aiutata in ogni caso. Primo dono: un
pacchetto di ansiolitici, da prendere al bisogno, mentre, tentavano,
in tutti i modi, di sottopormi ad una psicoterapia, non richiesta e
non gradita, mentre la mia disperazione e la mia sofferenza
crescevano ogni giorno di più. Mi rivolsi allo stesso
operatore per più di un anno, senza alcun risultato, mentre le
mie condizioni fisiche peggioravano ed il mio peso aumentava. Le cose
non cambiarono quando andai altrove. Mi prescrissero psicofarmaci:
dal Prozac, ad altri. Poi arrivarono i neurolettici, mentre cercavo
di spiegare disperatamente, non ascoltata, a queste persone che con
le chiacchiere non si esce dalla disperazione, specialmente quando in
casa hai una madre totalmente invalida, senza risorse economiche,
senza lavoro e senza futuro, anche con una laurea in Giurisprudenza,
in terra di mafia! Mentre il contrasto fra le loro eccellenti
teorizzazioni ed i miei principi e valori di vita, diveniva
incolmabile. Ad un certo punto, finii in ospedale per “Impregnazione
neurolettica.”
Ho rischiato di morire. Mi
disintossicarono e gli specialisti psichiatri della clinica dove mi
avevano portata mi chiesero come mai prendessi così potenti
psicofarmaci e come mai me ne fossero stati prescritti per anni di
tutti i tipi, visto, che, dopo un mese di osservazione all’interno
della loro struttura, non avevano riscontrato in me alcuna patologia!
Per loro ero perfettamente sana! Il problema dell’abuso del cibo
era solo dovuto alle vicende distruttive familiari. Avevo
semplicemente sfogato la disperazione sul cibo. Si poteva benissimo
correggere con. un po’di serenità e di quiete, costruendo la
mia vita. Ed allora tutti gli psicofarmaci prescritti?.. per quale
patologia? Le domande sorgevano spontanee. Rifiutai ogni prescrizione
farmacologia di neurolettici. Ritornai al Servizio dove mi volevano
ancora somministrare altri psicofarmaci potentissimi, se avevo voglia
di prenderne. Non ero certo guarita dalla mia gravissima
patologia…poi, dissero a mia madre che potevo anche optare per un
ricovero in ospedale, dove mi avrebbero sedata…Rifiutammo ogni tipo
di aiuto. Ancora non ci rendevamo conto di cosa fosse successo.
Incominciammo a richiedere la mia documentazione medica e le
Strutture incominciarono a rifiutarcela. Mi rivolsi così
all’avvocato presso il quale facevo praticantato legale. Con la
minaccia di una denuncia, ci fornirono quanto richiesto e dovuto.
Qual’era questo mio famoso malanno da curarmi a tutti i costi…o
meglio, che desideravano così ardentemente di curarmi? Non ci
è dato sapere… In una cartella avevo la personalità
disturbata a vario titolo, patologie gravissime irreversibili
(diagnosi postuma: sfornata al momento dell’intimazione legale!);
in un’altra la bulimia. In un’altra ancora non avevo niente (ma
gli psicofarmaci me li volevano dare lo stesso…Malata di che…?).
Di una stessa struttura esistevano addirittura due copie di cartelle.
Quale era la veritiera? Mistero…Però una cosa saltava agli
occhi, evidentissima…avevo contestato… forse troppo…ribellandomi
alle loro amorevoli cure…avevo fatto troppo di testa mia…pensato
troppo…Di certo non mi avevano curata e neppure guarita…
Allarmati, visto che non
riuscivamo a capire nulla, ci siamo rivolti ad un primario: il
Professore Mario Meduri di Messina, che, dopo visita accurata e vari
test di tutti i tipi, ripetuti presso un’altra struttura pubblica,
con il medesimo risultato (Perfettamente sana!), mi disse che non
avevo bisogno di psicofarmaci e che l’ingozzamento di cibo in tutti
quegli anni, si chiamava bulimia, ed era dovuto ai problemi
familiari.
Partì la denuncia
verso la Magistratura. Senza soldi e senza perito, quello bravo e
pagato bene, che metta in luce gli effetti distruttivi dei
psicofarmaci e l’assurdità di certo sistema, non hai
giustizia. Neppure in sede civile, perché la Giustizia in
Italia ha un costo economico non indifferente, e noi non rientravamo
neppure nel gratuito patrocinio, per pochi spiccioli! Non abbiamo
neppure potuto proporre un giudizio di danni, anche qui il perito
andava pagato, ante-causam ed in corso di causa. I reati, di falso in
atto pubblico è difficile dimostrarli. L’esposto, dopo anni,
fu archiviato per prescrizione. I reati di falso si erano prescritti!
Nessuna considerazione nel merito. Nessuna giustizia per anni di
inferno. La mafia dei colletti bianchi aveva vinto, come sempre…gli
amici degli amici…Avanti un altro da distruggere! E’ forse
scienza questa? Cosa sta succedendo?
In cura per cosa?…Ci
siamo chiesti tutti, familiari ed amici…La “patologia del
dissenso?” Per caso…visto che avevo avuto la felice idea di
andare, come mio solito, a ficcare il naso dove non avrei dovuto e
fare domande che non avrei mai dovuto fare…inopportune…contestatrici…
Quando rifiutai ogni aiuto
ero distrutta fisicamente. Tutti gli psicofarmaci provocano danni
collaterali, a cominciare dalla perdita della memoria, molto spesso
indimostrabili, in un campo dove impera l’arbitrio. Il mio peso era
di centotrenta chili ed oltre e i miei ormoni non rispondevano più.
Mi curò un medico
ginecologo, il dottore Oriente Antonio, gratuitamente, al quale devo
la mia vita e la mia salute.
I miei problemi personali
legati al cibo, con il suo carico di sofferenza e di disperazione, li
ho affrontato con l’aiuto prezioso delle persone che mi amano. Il
resto è venuto da sé, dopo che ho chiuso per sempre con
i veleni legalizzati e con qualunque tipo di approccio psichiatrico e
similari. Abilitazione all’esercizio della professione legale e dal
gennaio 2002 esercizio di funzioni giudiziarie onorarie presso il
Tribunale di Patti, distretto di corte d’Appello di Messina, con
all’attivo centinaia di Sentente e provvedimenti nel campo civile;
dando così il mio contributo all’Amministrazione della
Giustizia, crescendo umanamente e professionalmente, tra la stima e
l’affetto dei Magistrati, dei colleghi e degli Avvocati. A tutti un
grazie di vero cuore.
Presto ci sarà un
sito: www.analistaanalizzato.it, dove raccoglierò la mia
storia personale, con tutti i documenti storici connessi, per dare
voce a chi non ha voce, attraverso questa mia opera prima, l’Analista
Analizzato, edita dalla Casa Editrice Progetto Cultura 2003, e donare
un forte messaggio di speranza alle numerose persone disperate che
vengono sistematicamente distrutte nel tentativo assurdo di curargli
sola la disperazione…”malati di niente!”
“L’Analista
Analizzato” edizioni Progetto cultura 2003
di Lucia Maria Catena
Il libro
In tutti i mezzi di
comunicazione di massa televisivi e non vi propinano che gli
psichiatri, gli psicologi e similari, con le loro psicoterapie varie
e con i loro psicofarmaci vi salvano dalla violenza familiare, dalla
bulimia, dall’anoressia e da ogni genere di vostro disagio…
psicologico e non. Anzi, costoro sarebbero i nuovi Salvatori
dell’umanità, i “nuovi santi guaritori, gli specialisti
dell’anima”: pillolette della felicita! E vai sicuro!
Psicoterapia? Ti libera dal male! Ma vi siete mai chiesti quale
grande distruzione possono portare tali sistemi di cura assolutamente
non scientifici alla nostra salute fisica e mentale? Quale assurda
manipolazione dell’interiorità delle persone più
deboli si cela nel termine “psicoterapia”? Se lo desiderate, il
mio Analista… analizzato ve ne parlerà. E vi farete anche
quattro sane risate…
L’autrice
Lucia Maria Catena Amato
nasce a Palermo nel 1969. Vive a Santo Stefano di Camastra (ME).
Laureata in Giurisprudenza, è abilitata all’esercizio
professionale di Avvocato. Dal gennaio 2002 esercita funzioni
giudiziarie onorarie presso il Tribunale di Patti, distretto di Corte
d’Appello di Messina.