OPPORSI AL TSO SI PUO’ E SI DEVE !

  • June 4, 2014 12:56 pm

riceviamo e volentieri pubblichiamo, su richiesta dell’autore,
il suo racconto dell’esperienza vissuta in un reparto di psichiatria.

OPPORSI AL TRATTATAMENTO SANITARIO OBBLIGATORIO SI PUO’ E SI DEVE
di Valerio Citi

La mia disavventura con la psichiatria comincia un maledetto giorno di dicembre del 2013 quando, su forte insistenza di un parente che lavora presso la struttura ospedaliera della mia città e ha molta confidenza con i medici psichiatri di reparto, mi viene praticato un Tso del tutto ingiustificato, basato solo sul mio stato di evidente ebrezza e nulla di più. Io commetto un enorme errore che mi rovinerà l’esistenza: accettare con remissione senza oppormi. Il Tso mi viene addirittura ridotto da 7 giorni, come prevede la normativa, a soli 4, perché anche gli psichiatri sanno che dopo averci dormito su una sbronza passa e quindi era del tutto assurdo continuare a tenermi con la coercizione nel reparto. Questo però crea un annoso precedente che nei mesi successivi mi costerà molto caro.
Nella vita ho avuto due grandi disgrazie: avere entrambi i genitori malati di mente (secondo chi decide i criteri di tale patologia) e di aver cercato rifugio, per le loro continue assenze per ricoveri lunghi anche anni, nell’alcool. I miei ricordi d’infanzia sono per lo più legati all’odore di “piscio e segatura” che sentivo quando mi portavano a trovarli, perché “stavano male”, in non – luoghi che a me incutevano una gran paura.
Dopo quel maledetto giorno di dicembre anche io sono finito in quei luoghi che per tanto tempo avevo cercato di dimenticare.
Sono seguiti alcuni Tsv, sempre su spinta di alcuni familiari, e quando mi sono accorto che su di me era calata una gabbia era troppo tardi. Oltre alla sindrome da dipendenza da alcol, durante l’ennesimo ricovero, mi è stata affibbiata la stessa identica diagnosi che avevano i miei genitori: “disturbo bipolare”. Nessun criterio scientifico, nessuna analisi approfondita del paziente, solo che ingenuamente quando mi veniva chiesta l’anamnesi familiare io rispondevo con sincerità. E dunque mi è stato fatto un “copia – incolla” dei miei incubi peggiori, stavo varcando quella soglia verso il buio, dalla quale nè mia madre nè mio padre sono mai tornati indietro.
La malattia mentale secondo questi medici si trasmette da genitore a figlio come le patologie genetiche, niente importa più.
Durante i miei ricoveri ho subito ed ho assistito a soprusi, umiliazioni, ricatti. Se fossi credente definirei i reparti di psichiatria qualcosa di molto simile all’inferno sulla terra.
Data la mia diagnosi sono stato trattato farmacologicamente di conseguenza: timo – regolatori (volgarmente detti “stabilizzatori dell’umore”, come se l’umore di una persona dovesse essere regolato chimicamente e non dal naturale evolversi della vita e delle esperienze personali) e ansiolitici da cui adesso sono dipendente. Alla mia ferma opposizione ad assumere Depakin (acido valproico) per i suoi devastanti effetti collaterali, che avevo già constato coi miei occhi sui miei genitori, ho subito dei ricatti psicologici e delle vassazioni che faccio fatica anche solo a raccontare.
Ho avuto la fortuna però di incontrare anche delle persone giuste, a fatica ero riuscito ad uscire da questa gabbia, riuscendo persino a farmi chiudere la cartella clinica presso i Centri di Salute Mentale sul territorio presso i quali, quando non sei recluso in reparto, ti devi presentare giornalmente come se fossi in libertà vigilita.
Mi è stato proposto il metodo Hudolin (dallo psichiatra croato Vladimir Hudolin che tanto lavorò a fianco di Basaglia e riuscì, almeno in parte, a scardinare i pregiudizi della psichiatria classica), un approccio ai problemi alcol – correlati che vede il paziente non come un malato da trattare farmacologicamente, ma come un individuo facente parte di una comunità familiare e multi – familiare, che deve solo cambiare il suo stile di vita nei confronti dell’alcool per potersi godere la vita come meglio crede.
Sono stato in Veneto in una struttura hudoliniana con assoluta politica delle “porte aperte” e ho ottenuto risultati sorprendenti. La mia vita stava ricominciando lontano da alcool e psichiatria.
Ma quel maledetto giorno di dicembre, ormai lontano nel tempo e nel ricordo, mi presenta il conto: mentre ero seduto sul divano a guardare la tv, l’amica che mi stava ospitando a casa mi porge un’ordinanza di Tso firmata poche ore prima. La mia colpa? Aver avuto una cosiddetta ricaduta (cioé aver assunto alcool dopo molti mesi d’astinenza) e, sempre ingenuamente, averlo comunicato al mio medico del Ser.T, di cui avevo profonda stima e affetto. Non ho mai compiuto un singolo atto violento in vita mia, neanche sotto l’effetto dell’alcool, la mia unica colpa come detto è stata quella di accettare passivamente che la “gabbia psichiatrica” calasse su di me, perché così pensavo di far stare sereni i miei familiari.
Ma questa volta ho detto no, non potevano farmi questo proprio nel momento in cui stavo riacquisendo serenità e la mia vita stava ricominciando. Una settimana recluso in reparto, per un dispetto di una psichiatra, mi avrebbe lasciato una ferita troppo grande da rimarginare.
Non ho aperto alle forze dell’ordine, ho cercato di contattare un legale, ma invano. Dopo tre ore di vero e proprio assedio, la polizia in tenuta anti – sommossa è riuscita a entrare nel privato della mia casa, devastando tutto il mio piccolo mondo. Sono stato portato via ammanettato dietro la schiena da una decina di energumeni, come il peggiore degli assassini. Tutto il quartiere e numerosi giornalisti lì fermi ad assistere a questa scena surreale.
La vicenda per sommi capi la trovate qui:

http://iltirreno.gelocal.it/livorno/cronaca/2014/05/25/news/parla-dopo-la-fuga-da-psichiatria-torno-e-denuncio-i-soprusi-1.9289372

Una volta rinchiuso in reparto, come da prassi, sono stato pesantemente sedato per via endovenosa e messo a tacere. Ma la mattina dopo ho avuto uno dei pochi colpi di fortuna che mi sono capitati nella vita: l’ago della flebo con cui mi stavano sedando era fuoriscito durante la notte e potevo così riacquisire lucidità e forza per camminare. All’ora del vitto mi sono diretto verso la porta che dà sul retro dove ci sono gli uffici medici e quindi a una porta antipanico che significa libertà. Come ribadito non sono mai stato un violento ma nei calci a piedi scalzi che ho dato a quella porta c’era la forza di tutte le persone che hanno subito un abuso simile e non lo hanno mai potuto denunciare. Al terzo calcio, con un frastuono che ha fatto tremare tutto il reparto, e la coscienza di chi aveva potuto permettere un tale abuso, la porta si è spalancata. Ho avuto l’istinto di scappare di corsa, ma me ne sono andato camminando, a testa alta, perché io non mi sentivo colpevole di niente.
Ho passato dei giorni tremendi, nascondendomi di giorno e andando in cerca di acqua e cibo la notte, i quotidiani locali dicevano che “era ricercato da tutte le forze dell’ordine il ragazzo in fuga che si era barricato in casa”. Ma presto gli amici e i parenti che mi conoscono per quello che sono, un ragazzo buono che ha avuto un sacco di avversità nella vita ma senza mai cagionare danno a nessuno, mi hanno contattato, il mio nome è comparso sul giornale. Non mi sentivo più solo. Mi ha chiamato il Collettivo Antipschiatrico Artaud. No, non ero affatto solo. Mi è stata espressa una solidarietà che mi ha commosso e mi ha dato la forza di portare avanti una battaglia. Non una semplice rivalsa personale ma una lotta per i diritti di tutti, costituzionalmente sanciti.
E’ stata messa su una raccolta fondi che mi ha permesso di rivolgermi a dei legali a cui la mia vicenda ha creato “una notevole crescita sia sul piano professionale che su quello umano”. L’opposizione, come prevede la normativa, all’ordinanza di Tso è stata depositata, ed ora ho piena fiducia nella giustizia. E questo è solo l’inizio.
Il sistema psichiatrico è una cosa talmente più grande di me che se ci rifletto su mi sembra una lotta contro i mulini a vento. Ma adesso sento il dovere di andare fino in fondo, fosse l’ultima cosa che faccio, perché opporsi al trattamento sanitario obbligatorio si può e si deve.