Reflexiones_Sobre_La_Emergencia Traduzione in spagnolo
ALCUNE RIFLESSIONI SULL’EMERGENZA
Stiamo vivendo un momento molto difficile e drammatico per la nostra società. Se da una parte si assiste ad un progressivo aumento del malessere individuale e di conseguenza del numero di persone che stanno vivendo con difficoltà la solitudine a cui sono costrette, dall’altra c’è il rischio di un aumento dei contrasti interpersonali e della conflittualità familiare dovuti alla convivenza forzata. Le donne che subiscono violenza domestica si vedono obbligate a coabitare con i loro aggressori, aumentano i casi di persone giovani costrette, date le difficoltà di sostenere un canone d’affitto, a tornare a vivere con la famiglia d’origine, portando così a una rinnovata centralità il modello di famiglia patriarcale. Anche i bambini e gli adolescenti, privati della libertà di socializzare, giocare e interagire, si trovano a vivere una situazione particolarmente difficile.
Come collettivo antipsichiatrico siamo preoccupati per l’aumento dei suicidi, per il frequente ricorso al TSO (Trattamento Sanitario Obbligatorio), per il possibile aumento del consumo di psicofarmaci e della contenzione fisica all’interno dei reparti psichiatrici di diagnosi e cura. Denunciamo l’utilizzo del taser per sedare le persone in difficoltà, come è avvenuto qualche settimana fa all’interno di un ufficio postale di Torino dove un uomo è stato stordito dai carabinieri e lasciato a terra in attesa dell’arrivo dell’ambulanza, a causa di un diverbio scoppiato con le altre persone presenti nell’ufficio postale poiché privo di mascherina.
Preoccupante anche la situazione negli Istituti di pena già in stato di sovraffollamento cronico. Mai come ora si rende evidente la necessità del superamento del carcere con modelli di pena alternativi. Improrogabile un’amnistia generale, la liberazione dei detenuti per le lotte sociali, dei tossicodipendenti, dei sofferenti di presunte patologie psichiatriche e in generale di tutti coloro che scontano pene per reati connessi alle fallimentari leggi proibizioniste sulle droghe.
La crisi economica e sociale che stavamo vivendo, prima dell’inizio della pandemia, rischia di amplificarsi e travolgere la maggior parte della popolazione. In Italia il Covid-19 ha accelerato un processo in corso da anni, volto a demolire il Servizio Sanitario Nazionale a beneficio delle sempre più numerose cliniche private, mediante politiche bipartisan di tagli, aziendalizzazione e privatizzazione; è difficile pensare a una reale tutela della salute quando la priorità da parte delle Asl e delle aziende ospedaliere è quella di rispettare i bilanci.
Da subito il Covid-19 ha mostrato di “essere un virus per ricchi” e sempre più persone iniziano a capire che non siamo tutti sulla stessa barca. Un prezzo altissimo lo sta già pagando chi non ha una casa o è costretto a condividerla con altri in spazi inadeguati; chi è obbligato a svolgere il proprio lavoro senza i mezzi di sicurezza idonei, chi l’ha perso o chi è impossibilitato a portarlo avanti poiché in nero. C’è poi chi non può beneficiare dello smart working e della teledidattica perché non possiede un computer in casa e una connessione internet affidabile. Ma come fa chi non ha documenti, chi è senza casa, chi non ha accesso ai servizi sanitari, all’ammortizzatori sociali? Le persone che si trovano in strada per necessità rischiano un ulteriore inasprimento della loro situazione, dal punto di vista giudiziario e sanitario. Ci chiediamo che ripercussioni avrà questo stato di emergenza su chi vive già in una condizione di isolamento ed esclusione?
Mentre assistiamo al martellante appello all’unità nazionale, milioni di persone si trovano ancora costrette ad andare al lavoro, il più delle volte su mezzi pubblici sovraffollati, senza protezioni di alcun tipo e soprattutto in settori assolutamente non essenziali come quello della produzione di armi o di beni lusso.
È molto probabile che chi ci governa tenterà di far pagare i costi di questa emergenza alle lavoratrici, ai lavoratori e ai soggetti più fragili; non c’è alcuna volontà di aggredire i grandi patrimoni privati attuando meccanismi di redistribuzione della ricchezza. Le emergenze sociali e sanitarie chiedono un cambiamento nella distribuzione delle risorse collettive che invece, negli ultimi decenni, sono state dirottate senza sosta dal pubblico al privato, con il plauso di industriali e banchieri.
Solo in questi ultimi giorni ci stiamo rendendo conto di come molti contagi siano avvenuti all’interno di Fondazioni e Istituzioni private, nelle RSA (Residenze Sanitarie Assistite) e nelle residenze psichiatriche senza che siano state prese misure di sicurezza adeguate. All’interno di queste strutture un’umanità indifesa soggiace spesso silenziosamente all’abuso sociale di chi l’ha dichiarata ormai improduttiva e quindi sacrificabile. I responsabili delle strutture, quando si sono manifestati nuovi casi, hanno deciso di trincerarsi dentro e di chiudere ogni contatto con l’esterno, pur non avendo i mezzi per contrastare la diffusione del virus (nella regione Lombardia, secondo la delibera emessa, chi è anziano, poiché troppo a rischio, non dovrebbe essere curato in terapia intensiva quindi le responsabilità sono a livello regionale). Il risultato in molte zone è la diffusione massiccia dell’epidemia e a farne le spese sono in primo luogo gli anziani over 80, gli intrasportabili e lo stesso personale sanitario che lavora a rischio della propria vita.
In una struttura psichiatrica in provincia di Genova gli effetti causati dall’epidemia di Coronavirus sono stati drammatici: su 40 ospiti 38 sono risultati positivi al tampone e la malattia ha fatto registrare per il momento tre morti. A Milano nella RSA della Baggina ci sono stati 200 decessi, in provincia di Brescia in una struttura per donne ex-psichiatrizzate le perdite di vite umane sono state 22. Tra le altre regioni la Toscana non è da meno: su 320 RSA di cui 56 commissariate e affidate a gestione Asl ci sono stati circa 170 decessi. Una riflessione sullo Stato garante è dovuta: il governo a inizio marzo aveva dichiarato che la situazione era sotto controllo ma è stato subito smentito dai fatti. I tamponi per il personale sanitario sono arrivati in ritardo e le mascherine si stanno diffondendo alla spicciolata a due mesi distanza dall’emergenza mentre i governatori giocano al palleggio delle proprie responsabilità, nelle zone “sospese” come la Valseriana, intanto si sono sacrificati gli anziani e i soggetti più vulnerabili. Vedremo che cosa ci prospetterà la cosiddetta fase 2.
Come non pensare anche ai morti nelle Rems e nelle carceri a causa del Covid19? Una situazione come quella attuale dimostra che il superamento delle istituzioni totali debba essere fra gli obiettivi delle nostre lotte. I pazienti psichiatrici affetti da Covid 19 sono doppiamente a rischio: secondo la testimonianza di un medico in Lombardia gli psicofarmaci interferiscono con le cure ponendo un problema immediato di dosaggio, che a sua volta provoca uno stato depressivo facilitando l’azione del virus o uno stato euforico in cui il paziente spesso si strappa la mascherina d’ossigeno a rischio della vita. In pratica questi medici che non sono psichiatri ma internisti o virologi si trovano a modulare una terapia su dei pazienti di cui ignorano completamente la storia clinica.
Da settimane i media continuano a descrivere questa realtà come uno stato di guerra, in cui i nostri ospedali sono le odierne trincee, in una narrazione dei fatti tesa ad alimentare quella paura ed insicurezza collettiva sulla quale si legittimano e trovano consenso tutte le scelte della gestione securitaria cui stiamo assistendo.
L’utilizzo sempre più generalizzato dei social e delle tecnologie digitali ispira nuovi paradigmi della sorveglianza e riconfigura l’organizzazione del lavoro; certo i social network facilitano i contatti interpersonali ma non sostituiranno mai il bisogno di relazioni sociali non mediate intrinseco alla nostra specie; c’è il rischio piuttosto che le nuove tecnologie finiscono per stravolgere e inaridire ulteriormente i rapporti sociali già parecchio sfilacciati da modelli economici, politici e culturali che ci vengono presentati come ineluttabili. La retorica che ci presenta il nuovo paradigma digitale è del tutto subordinata a logiche di controllo totale e iper sfruttamento. Non dimentichiamo inoltre che ogni singola connessione non fa che arricchire le multinazionali dei Big Data oltre a riempirne gli archivi con i nostri dati personali che consentiranno profilazioni sempre più raffinate.
Fondamentalmente la costruzione mediatica di una contrapposizione tra la libertà individuale e la salute pubblica è stata coltivata ad arte dai mezzi di comunicazione. Si è scelto di criminalizzare i comportamenti individuali e farli diventare un vero e proprio capro espiatorio per nascondere gli interessi degli industriali, che chiedevano e chiedono a gran voce di continuare la produzione nonostante gli evidenti rischi di nuovi contagi e focolai. Nel contempo il cittadino diventa complice e, sentendosi investito del ruolo di sceriffo, finisce per denunciare chi, a parer suo, non rispetta le norme.
È evidente che i dispositivi di protezione individuale e il mantenimento della distanza di sicurezza siano utili per contenere il contagio, ma il rischio è di finire in una spirale di controllo sociale repressivo e permanente. Se da un lato il senso di responsabilità ci impone di rispettare le misure di distanziamento sociale per arginare il contagio e preservare la salute collettiva, dall’altra non possiamo non rivendicare come tale scelta, apparentemente convergente con le restrizioni imposte dai decreti, sia mossa da ragioni ben diverse da quelle del Governo. Oltre allo smantellamento del sistema sanitario ad opera dei governi degli ultimi anni non va dimenticato come i nuovi dispositivi di controllo della popolazione (repressione del dissenso e delle condotte devianti, tracciamento degli spostamenti, militarizzazione delle strade, negazione del diritto di sciopero ecc …) cui è ricorso lo Stato in questo periodo in nome della salute pubblica, molto probabilmente resteranno anche a emergenza finita e andranno ad arricchire quell’armamentario di decreti sicurezza e legislazione di emergenza che già oggi limita le nostre libertà individuali e collettive. Ci sarà da comprendere, vigilare e forse difendersi da un futuro “Stato Dottore” che sarà sempre più legittimato a controllarci e medicalizzarci in nome di una salute pubblica sempre più lontana dai bisogni di tutti.
L’attuale pandemia dice con chiarezza che bisogna spostare lo sguardo dal profitto economico ai reali bisogni della umanità e del pianeta, perché in certe situazioni o ci si salva tutti, e insieme, o non si salva nessuno.
Collettivo Antipsichiatrico Antonin Artaud
antipsichiatriapisa@inventati.org – www.artaudpisa.noblogs.org – 3357002669
Pubblichiamo un articolo di Chiara Gazzola dal titolo “Scuola e medicalizzazione” uscito su Arivista n°442 aprile 2020
“Scuola e medicalizzazione”
di Chiara Gazzola
La scuola italiana è ben lungi dall’essere una comunità educante. Tagli alle risorse e aumento di certificazioni dimostrano quanto le difficoltà espresse da ragazze/ragazzi vengano lette come sintomi di malattie e affrontate in termini medici e farmacologici.
<<La verità è la menzogna più profonda.>> Friedrich Nietzsche
La nostra epoca, a causa di una proficua pianificazione, è caratterizzata da un diffuso malessere esistenziale e dal dilagare di menzogne, indorate dal termine anglosassone fake news.
Il trionfo del neoliberismo invade anche tutti i contesti educativi e formativi. La scuola, perdendo i valori pedagogici di attenzione ai diritti e ai bisogni, acquisisce peculiarità aziendali evidenziate da neologismi (debiti, crediti, profitto, competenze, ottimizzazione dei tempi, raggiungimento di risultati): i continui tagli alle risorse inducono a un’elevata competizione fra i plessi con “offerte formative” di addestramento al mercato del lavoro, test di valutazione standardizzati, abolizione di interdisciplinarietà ed elaborazione critica delle conoscenze.
Nella scuola primaria, abolite le compresenze di insegnanti, l’approccio al sapere basato sulla ricerca è spesso sostituito da apprendimenti ottenuti in tempi ristretti e valutati attraverso quiz. Si innesca una concorrenzialità irrispettosa delle complessità tipiche dell’età evolutiva che produce ansia da prestazione e discriminazione fra chi emerge e chi è costretto nelle retrovie.
La tendenza a svilire e soppiantare il sapere umanistico, pedagogia compresa, a favore di applicazioni tecnicistiche si origina dal criterio EBE (Evidence based education, “istruzione basata sull’evidenza”), orientamento ideologico nato in Inghilterra negli anno 1980-’90 sotto i governi Thatcher e Blair, con l’obiettivo di circoscrivere ogni specializzazione accademica all’interno di esigenze produttive. Depauperando la relazione educativa e i percorsi di crescita anche la libertà professionale dell’insegnante è minacciata da un’omologazione che produce un divario fra chi tira i remi in barca e chi sceglie di assumersi gravose responsabilità.
Questo criterio trova coerenza in una selezione della popolazione scolastica, tanto che più si impoveriscono le risorse all’istruzione più aumentano le certificazioni (diagnosi neuropsichiatriche, BES – Bisogni Educativi Speciali, DSA – Disturbi Specifici dell’Apprendimento, cioè dislessie, discalculie ecc. che in Italia sfiorano il 4% della popolazione contraddicendo i riscontri della letteratura neuroscientifica: quanti i falsi positivi?). Si concretizza un’ingerenza delle istituzioni clinico-sanitarie su quelle scolastiche. Il determinismo organicista trova così una sponda fertile per diagnosticare e “curare” soggetti socialmente deboli, discriminando scelte di vita e vincolando approcci pedagogici.
Il coinvolgimento al sapere
In alcuni progetti scolastici e nelle circolari ministeriali si riscontrano ripetutamente lemmi avvincenti, con un’insistenza tale da farli corrispondere ai loro significati opposti. Che senso ha la “soggettività” quando diventa specchio di imposizione di uniformità? È una menzogna affermare che il rispetto per le soggettività debba prevedere un Piano Didattico Personalizzato (PDP) in quanto l’attenzione alle singole esigenze dovrebbe essere intrinseca ad ogni relazione educativa, senza supporti vincolanti. I PDP inducono a ridurre le aspettative tramite strumenti compensativi e dispensativi, producono uno stigma che tramutano una difficoltà momentanea (ad es. la sofferenza dovuta a un trauma, a un lutto o altre esperienze infelici) in cronicità, cioè in un giudizio permanente.
La correlazione fra basso rendimento scolastico e deficit intellettivo/disagio socio-economico è una forzatura ideologica: molte esperienze pedagogiche dimostrano che quando la relazione educativa sa offrire i giusti stimoli, senza imporre criteri formativi e valutativi, il coinvolgimento al sapere si ravviva spontaneamente. Eppure il basso rendimento scolastico viene spesso associato a “comportamenti non gestibili”, diventa cioè un sintomo da ricondurre a un deficit del bambino/a, deresponsabilizzando la didattica.
La “disabilità intellettiva”, nomenclatura ereditata dal DSM-5 (manuale delle malattie mentali, quinta edizione) in sostituzione del “ritardo mentale”, copre il 68,4% delle disabilità certificate.
Nelle cartelle cliniche neuropsichiatriche si trovano espressioni come: deficit di felicità; scarso senso di colpa; difficoltà di codifica delle informazioni sociali; disordine dell’identità; carenza di adattabilità; reazione incontrollata di fronte alle frustrazioni; deficit di empatia; manifestazioni emotive povere/eccessive; propensione innaturale a lasciare la propria patria, quest’ultima dedicata a minori stranieri non accompagnati. C’è da stupirsi se il 12% delle certificazioni riguarda le nuove generazioni migranti?
Minkowski definì l’anomalia come “un elemento di variazione individuale che impedisce a due esseri di potersi sostituire in modo completo”, proponendo un approccio filosofico in grado di superare la dicotomia sano/patologico per affermare quanto sia ipocrita l’imposizione di un giudizio conformante e quanto autoritario il voler ricondurre i comportamenti a una giustezza assoluta che faccia coincidere la normalità con la verità.
Il tentativo di dare una codificazione scientifica alle anomalie di comportamento è vecchio quanto la psichiatria ma, essendo questo un ambito prettamente culturale, le dimostrazioni si avvalgono di giudizi morali che diventano clinici per un atto di magia del marketing. Del resto è il DSM (il manuale delle malattie mentali redatto dalla psichiatria americana) a dichiararlo: nella sua quinta edizione del 2013 si legge: “Le cause organiche sono ancora sconosciute”. Non a caso la psichiatria è l’unica specializzazione medica che rende ufficiali le patologie soltanto quando ha a disposizione la molecola individuata come farmaco elettivo. Fra gli esempi più noti il metilfenidato (MPH), brevettato nel 1954 dalla Ciba-Geigy; negli anni ’70 negli USA vengono diagnosticati 150.000 casi di deficit attentivo; nel 1980 il DSM-III include questa patologia (ADD), da curare con MPH, alla quale nel 1994 il DSM-IV aggiunge l’iperattività (ADHD). Allargati i criteri diagnostici, nel 1998 si raggiungono i 6 milioni di minori curati con una sostanza che tuttora l’OMS classifica nella stessa tabella delle molecole psicoattive più nocive; gli ultimi dati delle prescrizioni americane si avvicinano agli 11 milioni, a partire dai 2 anni di età, ma le cifre si fanno via via imprecise a causa della tendenza a descrivere comorbidità (diagnosi multiple) con conseguente cocktail farmacologico.
Effetti collaterali molto gravi
Il giro d’affari degli psicofarmaci è talmente elevato che i bilanci delle case produttrici preventivano cause legali e risarcimenti. Questa tendenza è esportata in molti Paesi nonostante aumentino le voci critiche della pediatria, della biologia e della pedagogia; in Italia l’ADHD funge da spartiacque per altre certificazioni, i questionari per lo screening – rinnegati dai medesimi autori dopo anni di diffusione – nei documenti ufficiali di casa nostra sono considerati “strumenti oggettivi”. I fautori della sperimentazione (screening nelle scuole) dei primi anni 2000, che ha riportato nelle farmacie il MPH, sono tuttora i responsabili di Linee guida, Protocolli, Registri dove si afferma che “la mancata disponibilità di interventi psico-educativi non deve essere causa di ritardo nell’inizio della terapia farmacologica”.
Il Registro ADHD è obbligatorio dopo la declassazione del farmaco, ma paradossalmente nel Registro non vengono monitorati tutti i minori ai quali viene prescritto, ma soltanto quelli sottoposti anche a terapia psico-educativa (“trattamento combinato”). In attesa dei dati completi, ci sono pressioni sul Ministero affinché tale Registro venga abolito.
Tutti i dati sul consumo di psicofarmaci in età pediatrica rilevano un aumento esponenziale: l’European Journal of Neuropsychopharmacology, limitatamente agli antidepressivi, denuncia un 40% di incremento in Europa fra il 2005 e il 2012; altri studi confermano questa realtà specificando quanto le percentuali siano sottostimate a causa del ricorso a prescrizioni private o ad acquisti via internet. Queste molecole assunte nell’età evolutiva producono effetti collaterali molto gravi e ledono gli ormoni della crescita; le conseguenze delle cure ormonali supplettive sono ancora poco documentate dalla letteratura medica.
Mentre la verità sui risvolti medicalizzanti ha ancora lati oscuri, raccogliamo le menzogne dei responsabili dei protocolli italiani sull’ADHD quando affermano: “Gli effetti indesiderati sono modesti e facilmente gestibili”, discostandosi nettamente dai giudizi della Food & Drug Administration quando elenca: crisi maniacali e depressive con tentativi di suicidio, gravi affezioni cardiache, diabete, ictus e morte improvvisa.
Le circolari del Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca (Miur) identificano le istituzioni scolastiche come “comunità educanti”, ma se così fosse sarebbero il luogo privilegiato dell’incontro, del dialogo, della scoperta, della creatività dove l’interscambio di dubbi, riflessioni e progettualità non riproponga la disparità verticistica fra chi sa e chi non sa. Luoghi dove educare (nell’etimologia del tirar fuori, stimolare) ed esperire siano una modalità consolidata che, in prospettiva, possa fungere da prevenzione alle difficoltà senza tradurle in “disturbi comportamentali”.
Il dialogo è l’ennesima menzogna se manca la capacità di ascolto e di attenzione ai bisogni. Codificare i conflitti attraverso le categorie cliniche del patologico è il fallimento della relazione: relazione significa fenomenologia, la scommessa meno scontata, quella che parla il linguaggio delle esperienze e del relativismo per antonomasia, l’unica a restituire partecipazione attiva.
Nella scuola pubblica la carenza di spazi di riflessione procura disorientamento: carichi di lavoro elevati, burocrazia, difficoltà a cogliere le priorità nel sovrapporsi di impegni che tolgono energie da dedicare all’insegnamento e alla relazione. Il CESP (Centro studi per la scuola pubblica), cogliendo questa esigenza, organizza corsi di aggiornamento per offrire riflessioni culturali, parallelamente all’attività sindacale COBAS. Fra gli argomenti quello della medicalizzazione degli studenti: in attivo una quindicina di seminari/laboratori molto partecipati, occasioni di interscambio per approfondimenti importanti anche per chi interviene nelle relazioni introduttive.
La difesa dell’autodeterminazione nella relazione educativa e la responsabilità nei confronti delle nuove generazioni ci spinge a svelare le gabbie di menzogna o i “regimi di verità” per dirlo con M. Foucault; rincorrere stereotipi è una deriva disumanizzante. La memoria ci ha tradito a tal punto da voler, a nostra volta, tradire l’infanzia?
Chiara Gazzola
Nella consapevolezza di aver sintetizzato alcuni passaggi, rimando a: C. Gazzola, S. Ortu, Divieto d’infanzia. Psichiatria, controllo, profitto, BFS, Pisa 2018, pp. 94, € 10,00, seconda edizione aggiornata; note e bibliografia in: http://www.bfs.it/edizioni/files/prefazioni/233.pdf
Pubblichiamo uno scritto del Collettivo EducaAttivi di Bologna
https://educattivi.noblogs.org/post/2020/04/02/corona-virus-ordinanze-e-marginalita/
Introduzione
Non siamo tuttx sulla stessa barca, chi ha un minimo di coscienza lo ha capito, che il virus, le ordinanze, non assumono lo stesso valore per tuttx, perchè appunto, non abbiamo tuttx gli stessi privilegi.
“Prima denuncia penale a Nerviano per la violazione del decreto contro la diffusione del contagio: la Polizia Locale blocca venditore di fiori”
La prima denuncia penale – ora sanzione amministrativa – è andata ad un venditore di fiori.
Ne seguono molte altre:
https://www.repubblica.it/cronaca/2020/03/15/news/coronavirus_clochard-251367827/
https://bologna.repubblica.it/cronaca/2020/03/15/news/coronavirus_prostituta_denunciata_due_volte_a_ravenna_sto_lavorando_anche_io_-251346477/
https://www.open.online/2020/03/18/coronavirus-ecco-le-denunce-ai-senzatetto-basta-multe-chi-una-casa-non-ce-lha-cosa-fa-e-la-puglia-apre-le-casette/
https://www.repubblica.it/solidarieta/2020/03/21/news/coronavirus_e_senza_tetto-251909608/
Ma chi non ha documenti, chi è senza casa, outsider, marginalità, chi accesso a salute, tutele e informazioni corrette non ne ha? Come fa?
Persone che hanno avuto problemi con la giustizia e che si trovano in strada per condizione o necessità, rischiano un’ulteriore inasprimento della loro condizione, dal punto di vista giudiziario e della salute. Che ripercussioni avrà questo ‘stato di emergenza su chi vive già in condizione di isolamento ed esclusione? Quali azioni di solidarietà, mutuo-aiuto e resistenza mettere in campo?
Distribuire cibo e presidi di salute di riduzione del danno in modo autogestito è impossibile senza incorrere in sanzioni. Le reti che potrebbero attivarsi faticano per la paura legata alle ordinanze, altre attendono burocrazie, presidi di protezione e permessi. Senza coordinarsi con le istituzioni sembra impossibile muoversi. Chi lavora non viene garantito e chi vorrebbe fare mutuo-aiuto é legato. Serve un’autorizzazione per tutto. Impossibile stare in strada.
Vicinato solidale? Attenzione alle ‘motivazioni’ in caso di fermo, fare la spesa al vicino no, fare la spesa al vicino mentre si fa la propria si.
L’autogestione della solidarietà si sta ponendo il problema di come muoversi in questo contesto.
Il timore è una solidarietà strumentalizzata, che rischia di tirare acqua al mulino della narrazione istituzionale che sta passando, quella del ‘tutti sulla stessa barca’, ‘vicini si può fare’, dell’assitenzialismo e della solidarietà che sopperiscono alle mancanze di chi ci toglie, spazio, aria, vita tutti i giorni.
Le amministrazioni mangeranno sopra allo sforzo della cittadinanza’ mentre un sacco di lavoratrici e lavoratori pagheranno l’emergenza.
Il livello di ‘paranoia’ nell’incontro con altrx fuori casa é altissimo, le persone si sentono investite del potere di sceriffo temporaneo della città e denunciano chi vedono in giro.
Inchiesta autogestita e diretta sui servizi sociali, sanitari e di riduzione del danno nei giorni dell’emergenza, con particolare attenzione all’area bolognese:
Questa inchiesta è una raccolta di testimonianze dirette di operatori, famigliari e utenti dei servizi sociali e sanitari di Bologna dall’inizio della pandemia da Covid19 ad oggi. Ognuna di esse racconta storie vissute personalmente sulla nostra pelle o su quella dei nostri amici, parenti o vicini di casa. Piccole storie di ordinario disagio che dipingono un quadro di desolazione umana e sociale che nessuna emergenza dovrebbe oscurare. La loro raccolta e visibilità è uno dei propositi fondanti di questo progetto insieme al loro costante aggiornamento.
Dalle informazioni che abbiamo raccolto nei reparti ospedalieri di Bologna, un numero crescente di persone ritenute ‘problematiche a livello comportamentale’, seppur ricoverate per problemi di natura clinica, ossia patologie diagnosticabili su basi oggettive, vengono ‘gestite’ psichiatricamente e tenute sotto ‘sorveglianza’; ‘compito’ che si traduce in contenzione meccanica e farmacologica. Questa situazione, sebbene estremizzata dall’allarme, di fatto è una prassi sommersa, ma ordinaria e collaudata, all’interno degli ospedali – e non solo negli Spdc – che ‘denunciamo‘ da lungo tempo.
Nei reparti ospedalieri e nelle strutture socio sanitarie ben prima del covid 19 vi era una strutturale carenza o assenza di dispositivi di protezione individuale ed ambientale idonei alla sicurezza sul lavoro. Non è così sorprendente, quindi, che alcune aziende invitino i loro dipendenti a centellinare l’uso di dispositivi di protezione monouso a causa della difficoltà di reperimento ed approvviggionamento, impartendo ordini illegittimi, o palesemente illegali, che mettono a repentaglio la salute di lavoratori ed utenti.
Sebbene le retoriche del medico/infermiere/infermiera, eroe o santa, imperversino su social e media mainstream come parte integrante della narrazione spettacolare di questa epidemia, tra patriottismo ipocrita e rigurgiti neofascisti che rievocano la peggiore propaganda nazionalista e di guerra, il paragone con le trincee non è del tutto errato: come in passato venivano mandati a morire migliaia di proletari per combattere le guerre nazionaliste/coloniali dei padroni, oggi nella “guerra al virus” migliaia di lavoratori del SSN vengono di fatto abbandonati a loro stessi, mettendo a repentaglio la loro salute e quella dei pazienti per indennità di rischio ridicole e turni massacranti. Dopo anni di blocco del turnover e tagli drastici al SSN, assunzioni senza precedenti di specializzandi e infermieri, interinali, a tempo determinato e spesso alle prime esperienze, ha ‘emozionato’ migliaia di cittadini terrorizzati ma poco incideranno nella lotta al virus se non come lavoratori e lavoratrici usa-e-getta, immesse a ruolo in pochi giorni e mandate al fronte.
Inoltre, in modo pericolosamente illogico, l’ART.7 del DL n.14 2020, nega il tampone, e di conseguenza la messa in “quarantena”, per il personale sanitario in prima linea, se non in casi clinici conclamati, esponendo al contagio pazienti, operatori, familiari e contatti sociali, come osservato drammaticamente in Lombardia, dove ospedali e luoghi di lavoro continuano ad alimentare inesauribili il serbatoio dei positivi.
In piena emergenza, per compensare le carenze e i casi di malattia o infortuni correlati al covid19, centinaia di lavoratrici e lavoratori provenienti da altri reparti sono stati trasferiti in poche ore negli ospedali o reparti covid 19, vedendosi negati, in alcuni casi, la richiesta di affiancamento pur lavorando in contesti ad alto rischio. Qualche ora di formazione sulla vestizione/svestizione sono bastate alle aziende per lavarsi la coscienza, e rifornire la prima linea dei reparti dedicati alla cura del covid 19. La turnistica massacrante, e senza adeguato riposo, aumenta notevolmente lo stress e, di conseguenza, la possibilità di commettere ‘errori’, che ricadono direttamente sulla responsabilità del singolo senza nessuna tutela, in particolare per i piu ricattabili, e con il bene placido dei sindacati confederali.
Sempre per decreto sono stati sospesi i congedi ordinari per il personale sanitario operante nelle “zone rosse”, mentre su tutto il territorio nazionale vengono vietati gli scioperi nel pubblico impiego e le manifestazioni in piazza. Chi prova a denunciare queste insopportabili condizioni alla stampa, viene minacciato di licenziamento o sottoposto a provvedimenti disciplinari. Viene impedito agli infermieri di denunciare l’infortunio, qualora si infettino in servizio, a favore di una semplice malattia; in questo modo le aziende non risponderanno del danno differenziale da infortunio colposo.
Drammatica la situazione nelle residenze per anziani, a livello sanitario si segnalano numerosissimi casi di contagio, ‘reparti covid’ improvvisati in assenza di dispositivi di protezione individuale e situazioni estremamente critiche.
Nei servizi socio sanitari, nelle strutture dedicate al disagio psichico, è tecnicamente impossibile soddisfare l’esigenza di uscire all’aria aperta dei residenti che si vedono negare il piu elementare elemento di salute e l’unico momento relazionale al di fuori dei muri. Le visite sono sospese ed il rischio è quello dell’effetto ‘pentola a pressione’: un aumento esponenziale della contenzione fisica, meccanica e farmacologica è estremamente reale. Con i centri diurni chiusi si segnalano frequenti situazioni di crisi all’interno dei nuclei familiari.
A Torino viene segnalato un aumento dei TSO (trattamenti sanitari obbligatori) ma immaginiamo lo stesso stia accadendo anche nelle altre città.
Abbiamo avuto notizia di un operatore destinato ad interventi ‘domiciliari’ con la ‘direttiva’ di ‘non salire a casa’. Gli incontri si sono svolti all’aperto con un ‘documento’ che certificava l’intervento dell’operatore. L’operatore ha anche riferito di essere stato fermato piu di una volta durante il suo servizio di intervento domiciliare con l’invito da parte delle forze dell’ordine di tornare a casa o disperdersi. Non sappiamo ad oggi, con l’aumento delle restrizioni delle ultime settimane, come stiano procedendo tali interventi, ma la situazione riferita è comunque di enorme sofferenza.
In alcuni dormitori gli operatori si rendono disponibili ad uscire per andare al Sert a prendere il metadone e portarlo in struttura a chi necessita, ma ci viene comunque segnalato che la popolazione tossicodipendente si trova in grande difficoltà.
Nella seconda settimana di marzo, a Bologna, operatori ed educatori, addetti a servizi sociali incompatibili con le ordinanze, sono stati spostati in vari dormitori dell’area per tenerli aperti un numero maggiore di ore. In una di queste strutture, in concomitanza dell’imperativo #iorestoacasa, si è verificata una situazione particolarmente ‘critica’: le persone si sono rifiutate di uscire e hanno letteralmente ‘occupato’ la struttura a causa di un ospite portato via la sera prima in ambulanza. Il mattino seguente, gli ospiti si sono asserragliati all’interno, nonostante fossero obbligati ad uscire per la chiusura diurna dei dormitori, chiedendo informazioni e garanzie sulla salute della persona ospedalizzata e sulla loro.
La testimonianza:
“Lavoro in un dormitorio notturno per i senza tetto a Bologna.
Attualmente, vista la situazione d’emergenza, il piano d’accoglienza è stato ampliato a 20 ore giornaliere invece che 12.
Con l’hashtag #iorestoacasa ci troviamo davanti ad un evidente ossimoro:
come fa una persona senza dimora a tornare a casa?
C’è molta paura tra gli ospiti, sono aumentati i casi di violenza fisica e verbale all’interno dei vari centri di accoglienza che per motivi strutturali non possono mantenere le distanze minime per garantire la sicurezza di ospiti ed operatori.
In seguito ad un caso di febbre alta la tensione ha raggiunto un nuovo picco. Il giorno Venerdì 13 Marzo questa persona viene portata in ospedale verso le ore 22 dall’ambulanza (tra l’altro gli infermieri hanno chiesto a noi operatori in prestito il termometro).
La mattina successiva, una decina di ospiti si sono rifiutati di lasciare la struttura se non con prove certe dell’esito negativo del tampone. Di fatto abbiamo assistito ad una prima occupazione.
Sabato 14 la situazione è ancora tesa, non abbiamo risultati chiari dall’ospedale che in realtà arriveranno la mattina del 15 alle 08:30 con esito negativo (in realtà c’è stato comunicato a voce senza nessun riscontro scritto). Nonostante ciò gli ospiti decidono nuovamente di non lasciare la struttura. Ironia della sorte, per strada passa la camionetta della comunale che invita tutti a “stare a casa” (ma a casa dove?). Arrivato il coordinatore della struttura e vista la resistenza degli ospiti, vengono allertate le forze dell’ordine che arrivano poco dopo. Tra urla e minacce uno degli ospiti crolla… non vuole uscire fuori e mettere a rischio la sua salute.
Dopo di ciò il mio turno finisce ed esco dalla struttura.”
Ci siamo chieste quindi, dove dormire? Mangiare? Lavarsi? Trovare assistenza legale e sanitaria a Bologna ora?
L’opuscolo degli avvocati di strada… Dove andare per
Dalle fonti che abbiamo raccolto a Bologna i servizi a bassa soglia, di prossimità, accoglienza e riduzione del danno sono aperti. Anche il servizio mobile di sostegno è attivo.
L’Help Center ha istituito uscite serali dalle 20 alle 24 il lunedì, martedì e mercoledì.
L’Unità di strada lavora in modalità mobile dalle 10 alle 16.30 il lunedì, mercoledì e giovedì, e dalle 16 alle 19 il martedì e venerdì .
Anche in molte province, ci dicono, si riesce ancora a lavorare in drop-in e unità si strada, ma ci sono ‘molte’ difficoltà per trovare mascherine.
A disposizione per il piano emergenza freddo ci sono 300 posti, attualmente tutti occupati, siamo a 359 posti, 663 se si considerano anche le parrocchie che mettono a disposizione ospitalità per il freddo (numeri al 25 marzo).
Il piano freddo per l’emergenza virus è stato prorogato al 30 aprile rispetto alla scadenza tradizionale del 31 marzo.
Per necessità è attivo il servizio mobile che si occupa di attivare canali di sostegno e di individuare eventuali posti liberi -> instrada@piazzagrande.it
Le persone senza documenti possono accedere all’accoglienza e ai dormitori ma solo fino al 30 aprile, giorno in cui è stata prorogata la fine dell’emergenza freddo. Dopo non è dato sapere. Chi per scelta o per necessità non vuole/riesce ad accedere a questo tipo di servizi – dormitori e accoglienza – non sappiamo che ripercussioni potrà avere da questa situazione in cui è impossibile muoversi e rispondere ai bisogni primari di sopravvivenza.
Da lunedì 16 marzo – in seguito anche a momenti di tensione in cui gli ospiti hanno rivendicato il rischio legato alla loro salute – i dormitori sono rimasti aperti tutto il giorno, chiudendo alcune ore per effettuate le ‘pulizie’. In teoria in questo tempo gli ospiti avrebbero dovuto raggiungere le mense di supporto come l’Antoniano, che aveva sospeso il servizio di colazione/mensa/vestiti ordinario ma manteneva attiva la distribuzione di sacchetti (asporto) dalle 12:30 alle 13:30.
Dal 27 marzo abbiamo notizia che la consegna dei pasti sia a pranzo che a cena sarà offerta dalla Caritas.
Sono state montate due tenostrutture in via Pallavicini e via del Lazzaretto e altre due tensostrutture verranno montate a Villa Serena e davanti al dormitorio Beltrame perchè le persone trovino un riparo durante gli interventi di pulizia.
Crediamo che la situazione sia paradossale: mentre si è fatto il deserto in città a colpi di decoro, sgomberi, sfratti e privatizzazioni, ora si montano ‘i tendoni’, una ‘solidarietà’ dal gusto ‘amaro’, quando intere aree dei nostri quartieri sono state consegnate alla speculazione.
Lo sportello degli avvocati di strada si è espresso in tema di denunce e sanzioni:”Anche in Emilia-Romagna si sono registrate multe a carico di senza dimora accusati di violazione dell’articolo 650 del Codice penale, non avendo rispettato l’obbligo di restare in casa per contenere la diffusione del coronavirus: una casa, però, loro non ce l’hanno. Bisogna occuparsi, e in fretta, di chi non ha un tetto sulla testa ed è costretto a vagare per le città. Diciamo da più di 20 anni che chi vive in strada ha bisogno di una casa e di una residenza per potersi curare ma oggi, ai tempi del coronavirus, queste necessità assumono una drammatica urgenza. Ad aggiungere un carico su una situazione già paradossale stanno iniziando a fioccare i verbali redatti ai senza tetto. È gia’ successo a Milano, Modena, Verona, Siena e in tante altre città. Siamo a lavoro per chiedere le archiviazioni ma intanto continuiamo a porre la nostra domanda. Come fanno a restare a casa le persone che una casa non ce l’hanno?”. L’associazione ha rivolto un appello al Governo, alle Regioni e ai Comuni per chiedere, ad esempio, di “far cessare immediatamente l’irrogazione di sanzioni alle persone senza dimora per il solo fatto di trovarsi ‘fuori casa’ senza motivo” e, inoltre, di “stanziare somme per consentire ai Comuni di fornire un tetto alle persone senza dimora, utilizzando palestre, capannoni o altri edifici pubblici o privati”.
Lo sportello ha messo a disposizione una mail per le segnalazioni emergenza@avvocatodistrada.it e un vademecum per sostenere le persone senza dimora ad orientarsi nell’emergenza dal punto vista legale, tra il susseguirsi di ordinanze, decreti e moduli che cambiano di ora in ora. Dal 25 marzo infatti il nuovo Decreto-Legge trasforma la denuncia penale precedentemente prevista in sanzione amministrativa (pagamento di una somma da euro 400 a euro 3.000).
L’associazione Sokos – che a Bologna da quasi trent’anni garantisce assistenza medica gratuita a migranti senza permesso di soggiorno, a persone senza dimora e a chiunque viva una condizione di esclusione sociale – fa sapere che non riesce più a garantire l’attività per l’impossibilità di reperire sufficienti dispositivi di protezione individuale. Normalmente l’associazione riusciva a coprire l’assistenza di base e specialistica a 20-30 persone al giorno. Continueranno a ricere i loro medicinali le persone con patologie croniche già seguite.
Nel frattempo anche al Cas Mattei si inasprisce la situazione, a segnalarlo è il coordinamento migranti: sovraffollamento e grave rischio sanitario, turni di pulizia organizzati dai migranti e dalle migranti con mascherine artigianali, quantità di cibo insufficenti. Un migrante è stato messo in isolamento in un container: non si sa ancora né come sta nè se sia stato sottoposto al test tampone per verificare l’eventuale positività al virus.
Rimane gravissima la situazione al carcere della Dozza, – dove il focolaio in atto fa il primo morto – come nel resto di Italia e del mondo.
Conclusioni
Cpr e istituzioni totali, aprono uno squarcio sulle nostre coscienze urlando e ricordando a tuttx lo stato d’emergenza quotidiano di chi voce non ne ha mai avuta.
Crediamo che questa situazione di crisi possa essere anche un’opportunità di riappropriazione per tuttx noi, dei nostri legami e dei nostri bisogni, perchè la crisi economica non diventi una scusa per ulteriori cancellazione di diritti, vita, possibilità.
Abbiamo la responsabilità di significare questo momento con il mutuo-aiuto, con l’auto-organizzazione della solidarietà e con la lotta!
Non dalle frontiere di cui ci rendiamo colpevoli ogni giorno, non da chi scappa da guerra e povertà, non dai barconi che respingiamo, è arrivato questo virus. Questo è un virus coi documenti e col portafoglio, che ha potuto viaggiare in aereo.
Un’epidemia di queste proporzioni è prima di tutto un fatto sociale e per questo motivo non può che riguardarci tuttx.
Tutta la ‘scienza’, tutto il ‘progresso’, tutta la tecnologia e il sapere che abbiamo messo insieme, per cui ci affanniamo ogni giorno, non hanno saputo prevenire questo evento, avvisarci in tempo del rischio. Ricerca, enti, organizzazioni politche, accademiche ed economiche, nessuno dei ‘grandi piani’ è stato in grado in questi anni di segnalare il rischio. Ci sono grandi responsabilità politiche, economiche, accademiche nel dramma mondiale che stiamo vivendo.
Il fatto che è che lo Stato non sta difendendo noi ma difendendo se stesso, e ci sta dicendo che se l’infrastruttura di sistema (la loro configurazione sociale) per determinati motivi di allarme rischierà di non reggere (secondo i suoi criteri produttivo-capitalistici), si potranno avere restrizioni delle libertà personali, coprifuoco e città militarizzate. L’equilibrio dipenderà dai rapporti di forza, da cosa subiremo e da cosa riusciremo a pretendere.
La realtà è che il vero ‘virus’ da debellare è un sistema economico e un’organizzazione sociale dove gli interessi delle grandi aziende valgono piu della salute pubblica, delle vite di lavoratrici e lavoratori, ultime e ultimi.
Non ci stiamo allo ‘stringiamo la cinghia tuttx insieme’. Non ci stiamo che siamo ‘tuttx sulla stessa barca’ e chiniamo il capo alla Scienza di Stato che livella e assume il ruolo di protettrice non di parte a stretto filo con esercito e grandi industrie, è evidente che questo virus non è uguale per tuttx in un sistema che mette il profitto prima del bisogno e che ha fatto del bisogno un profitto. Dove c’è chi accumula grandi capitali e si arrichisce a scapito di chi non può mangiare.
Il futuro non andrà tutto bene se non ci sarà un cambio di paradigma.
Anche noi condividiamo:
No volveremos a la normalidad porque la normalidad era el problema!
Sostieni:
Solidarietà anticarceraria: Sosteniamo il progetto promosso dall’associazione Bianca Guidetti Serra e dall’associazione di mutuo soccorso per il diritto di espressione, “Facciamoli uscire!” iniziativa che ha già messo a disposizione grazie alla solidarietà di compagni e compagne due appartamenti per ospitare detenuti e detenute che non hanno casa ma che potrebbero accedere alle misure alternative. Per questo facciamo appello a tutte le realtà di movimento, alle associazioni, agli avvocati e ai singoli per partecipare a questa azione solidale, per fare uscire più persone possibile.
Chi volesse contribuire al sostegno economico può farlo tramite versamento sul CC bancario dell’Associazione Bianca Guidetti Serra con la causale “FACCIAMOLI USCIRE !”
IBAN: IT44Z0538702412000003122151.
Inoltre chi fosse disponibile a partecipare alla RETE DI SOSTEGNO PER LA CONSEGNA DEI GENERI DI PRIMA NECESSITA’ PUO’ SCRIVERE ALLA SEGUENTE MAIL: associazioneguidettiserra@gmail.com oppure alla mail: ams@inventati.org
Covid19 – Nessuna da sola! Solidarietà immediata alle lavoratrici sessuali più colpite dall’emergenza
La maggior parte delle e dei sex worker non è in grado di accedere alle prestazioni sociali istituite come misure di emergenza dal Governo. È un momento di disperazione e di paura: molte delle giovani sex worker donne e persone trans sono migranti, sole e senza una rete familiare a cui far riferimento; molte altre sono madri e con il loro lavoro sostengono tutta la famiglia.
In queste settimane e sempre di più nelle prossime, l’emergenza che stiamo vivendo sta spingendo sull’orlo del baratro molte/i di loro, dando origine a situazioni di disagio e povertà sempre più gravi. E sarà sempre peggio. Vi sono persone dedite ad attività di prostituzione in forma libera, concordata o costretta, già in condizioni di vulnerabilità umana e sociale, e che oggi rischiano di precipitare in condizioni di povertà estrema. Condizioni di necessità che potrebbero costringerle a lavorare, violando le regole, esponendosi alle relative conseguenze penali e ai rischi per la propria salute e quella collettiva.
Sosteniamolx!
Alcune iniziative utili e di supporto, altre arriveranno:
Circolo Anarchico Berneri – Colonna Solidale Autogestita
Che aspettavamo e che sosteniamo sul territorio. Qui info
Collettivo antipsichiatrico Artaud – Raccontaci la tua esperienza
https://artaudpisa.noblogs.org/post/2020/03/29/raccontaci-la-tua-esperienza-di-questi-giorni/
Alcuni numeri per il supporto psicologico
https://psicovid19.bedita.net/
Info avvocati di strada
https://www.avvocatodistrada.it/covid19-multe-e-denunce-un-vademecum-per-le-persone-senza-dimora/
#iorestoacasama campagna di Nonunadimeno per rompere l’isolamento
https://nonunadimeno.wordpress.com/2020/03/28/iorestoacasamalotto-tutti-i-giorni-lancio-della-campagna-di-non-una-di-meno/
Tinder della verza di Campi aperti
https://framaforms.org/tinder-della-verza-un-progetto-di-campi-aperti-1585137025
Staffette alimentari partigiane
https://labasbo.org/2020/04/06/staffette-alimentari-partigiane/
Piattaforma Dont Panic
https://dontpanicbo.it/
Segnaliamo anche una guida anarchica per sopravvivere al virus
https://it.crimethinc.com/2020/03/18/sopravvivere-al-virus-una-guida-anarchica-il-capitalismo-in-crisi-laumento-del-totalitarismo-strategie-di-resistenza
Emergenza Covid19 e salute collettiva!
E’ evidente che le ‘necessità’ possono essere diverse. Tuteliamoci e consideriamo alcune piccole indicazioni che possono esserci utili nelle pratiche di autogestione e nella lotta.
Come collettivo mettiamo a disposizione il nostro indirizzo mail per dubbi, ascolto, orientamento e supporto, partendo da ciò che sappiamo, dalle ricerche che teniamo attive, dai rapporti con le reti di solidarietà che abbiamo, come persone coinvolte dal momento critico che stiamo vivendo. educazionelibertaria@autistici.org