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Le nuove catene della psichiatria a 30 anni dalla Legge 180
Il
collettivo Antonin Artaud è formato da un gruppo di persone che si propongono
di sviluppare e di diffondere una cultura di critica e di contrasto agli usi e
agli abusi della psichiatria, attraverso
attività di ricerca e di divulgazione, e
offrendo ascolto, solidarietà e supporto legale alle vittime della psichiatria.
Oggi,
a 30 anni dall’entrata in vigore della riforma psichiatrica, che ha visto
l’abolizione dei manicomi, ci troviamo ancora di fronte alla necessità di
mettere in discussione i meccanismi coercitivi e di reclusione dell’istituzione
psichiatrica.
La
riforma legislativa si concretizza con la legge 180, chiamata legge Basaglia,
nonostante lui stesso l’abbia in seguito criticata. Il contesto politico e
culturale di quegli anni era vivace e in continuo fermento, i movimenti
politici dal basso lottavano per la liberazione dell’individuo da catene e
sbarre, da poteri istituzionali e dal controllo poliziesco e medico. Cresceva
dunque il bisogno istituzionale di mettere un freno a queste spinte libertarie,
necessità concretizzata con una legge che solo apparentemente ha abolito i
meccanismi manicomiali e che si
è rivelata più verbale che materiale, riguardando solo i luoghi della psichiatria,
non i trattamenti e le logiche sottostanti.
Con la chiusura degli Ospedali
Psichiatrici si è verificata una trasformazione che ha visto sorgere capillarmente
sul territorio tutta una serie di piccole strutture preposte all’accoglienza
dei vecchi e nuovi utenti della psichiatria, quali case famiglia, Centri di
Salute Mentale (CSM), centri diurni, reparti ospedalieri, comunità
terapeutiche, ecc, all’interno dei quali continuano a perpetuarsi sia
l’etichetta di “malato mentale” sia i metodi coercitivi e violenti della
psichiatria. Si sono dunque conservati dispositivi e strumenti propri dei
manicomi, quali la gestione del tempo quotidiano, dei soldi, l’obbligo delle
cure e il ricorso alla contenzione fisica.
La legge Basaglia non ha
intaccato il fenomeno dell’internamento, mantenendo inalterato il principio di
manicomialità in base al quale chiunque può essere arbitrariamente etichettato
come “malato mentale” e rinchiuso. Viene infatti
definita la pratica del TSO (Trattamento Sanitario Obbligatorio) ossia la
possibilità di veri e propri ricoveri coatti,
atti di violenza che rappresentano un grande trauma per chi li subisce.
Insieme al bombardamento farmacologico, che mira ad annullare la coscienza
della persona e a renderla docile ai ritmi e alle regole ospedaliere, per i
pazienti considerati “agitati” si ricorre ancora all’isolamento e alla
contenzione fisica.
Con
la chiusura dei manicomi la psichiatria ha raggiunto più potere ed una migliore
visibilità come scienza medica: essa è riuscita a sbarazzarsi di camicie di
forza, sbarre, e letti di contenzione (quest’ultimi sono comunque tuttora
presenti!) sostituendoli con cure massicce di psicofarmaci, di
durata indeterminata e rese obbligatorie sotto
il ricatto di un internamento attraverso il TSO.
Vogliamo infine manifestare il
nostro dissenso verso coloro che in questi giorni hanno trovato il pretesto del
trentennale della legge 180 per tesserne le lodi di “democraticità” e farsi
belli agli occhi della comunità, ma che nel quotidiano non fanno altro che
rafforzare il modello psichiatrico “manicomiale” vigente: coordinatori di Distretti
di Salute Mentale, nei cui reparti chiusi i pazienti non possono uscire benché
ne abbiano tutto il diritto o muoiono a vent’anni in circostanze del tutto
sospette; associazioni e cooperative sociali che svolgono il proprio lavoro a
fianco della psichiatria; insigni professori che esercitano pratiche disumane
quali l’elettroshock, e che ultimamente ne promuovono una maggiore diffusione
nel territorio.
Vogliamo invitare tutti alla nostra
iniziativa per confrontarsi su questi argomenti.
COLLETTIVO ANTIPSICHIATRICO ANTONIN ARTAUD – PISA
antipsichiatriapisa@inventati.org
TSO: uno strumento di controllo
Con la chiusura degli Ospedali Psichiatrici si è verificata una trasformazione che ha visto sorgere tutta una serie di piccole strutture preposte all’accoglienza dei vecchi e nuovi utenti della psichiatria, quali case famiglia, Centri di Salute Mentale (CSM), centri diurni, reparti ospedalieri, comunità terapeutiche, ecc, all’interno dei quali continuano a perpetuarsi sia l’etichetta di “malato mentale” sia i metodi coercitivi e violenti della psichiatria. Si sono conservati dispositivi e strumenti propri dei manicomi, quali la gestione del tempo quotidiano, dei soldi, l’obbligo delle cure e il ricorso alla contenzione fisica.
La legge Basaglia non ha intaccato il fenomeno dell’internamento, mantenendo inalterato il principio di manicomialità in base al quale chiunque può essere arbitrariamente etichettato come “malato mentale” e rinchiuso. Mentre l’articolo 32 della Costituzione sancisce il diritto alla libera scelta del luogo di cura e la volontarietà delle cure mediche, con la legge 180 e la successiva 833 si sono stabiliti dei casi in cui il ricovero può essere effettuato indipendentemente dalla volontà dell’individuo: è il caso del TSO (Trattamento Sanitario Obbligatorio) e dell’ASO (Accertamento Sanitario Obbligatorio).
Nel 1982 la popolazione dei degenti psichiatrici era calcolata intorno ai 24.118 persone. Nel 1914 tale cifra raggiunse i 54.311 individui, per impennare ancora toccando, nel 1934, gli 80.000 internati. Su queste stime si mantenne fino al 1971, anno in cui cominciò a decrescere gradualmente fino a raggiungere nel 1978 i 54.000 internati, con un movimento annuo di ricoverati che ammontava a circa 190.000 persone. Nel 1978 esistevano in Italia un centinaio di istituti (Ospedali Psichiatrici Provinciali) con una capacità di circa 80.000 posti letto.
Oggi il numero degli internati nel sistema post-manicomiale è difficilmente calcolabile perché con l’introduzione del TSO il flusso in entrata ed in uscita dai reparti nell’arco dell’anno si è fortemente accelerato, mentre la diffusione dei trattamenti psichiatrici extra-ospedalieri è enorme e riguarda ormai più di 600.000 persone.
Il regime terapeutico imposto dal TSO ha una durata di 7 giorni e può essere effettuato solo all’interno di reparti psichiatrici di ospedali pubblici. Deve essere disposto con provvedimento del Sindaco del Comune di residenza su proposta motivata da un medico e convalidata da uno psichiatra operante nella struttura sanitaria pubblica. Dopo aver firmato la richiesta di TSO, il Sindaco deve inviare il provvedimento e le certificazioni mediche al Giudice Tutelare operante sul territorio il quale deve notificare il provvedimento e decidere se convalidarlo o meno entro 48 ore. Lo stesso procedimento deve essere seguito nel caso in cui il TSO sia rinnovato oltre i 7 giorni.
La legge stabilisce che il ricovero coatto può essere eseguito solo se sussistono contemporaneamente tre condizioni: l’individuo presenta alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici, l’individuo rifiuta la terapia psichiatrica, l’individuo non può essere assistito in altro modo rispetto al ricovero ospedaliero. Subito ci troviamo di fronte ad un problema: chi determina lo “stato di necessità” e l’urgenza dell’intervento terapeutico? E, in che modo si dimostra che il ricovero ospedaliero è l’unica soluzione possibile? Risulta evidente che le condizioni di attuazione di un TSO rimandano, di fatto, al giudizio esclusivo ed arbitrario di uno psichiatra, giudizio al quale il Sindaco, che dovrebbe insieme al Giudice Tutelare agire da garante del paziente, di norma non si oppone.
Per la persona coinvolta l’unica possibilità di sottrarsi al TSO sta nell’accettazione della terapia al fine di far decadere una delle tre condizioni, ma è frequente che il provvedimento sia mantenuto anche se il paziente non rifiuta la terapia.
Se, in teoria, la legge prevede il ricovero coatto solo in casi limitati e dietro il rispetto rigoroso di alcune condizioni, la realtà testimoniata da chi la psichiatria la subisce è ben diversa. Con grande facilità le procedure giuridiche e mediche vengono aggirate: nella maggior parte dei casi i ricoveri coatti sono eseguiti senza rispettare le norme che li regolano e seguono il loro corso semplicemente per il fatto che quasi nessuno è a conoscenza delle normative e dei diritti del ricoverato.
Spesso il paziente non viene informato di poter lasciare il reparto dopo lo scadere dei sette giorni ed è trattenuto inconsapevolmente in regime di TSV (Trattamento Sanitario Volontario). Persone che si recano in reparto in regime di TSV sono poi trattenute in TSO al momento in cui richiedono di andarsene. Diffusa è la pratica di far passare, tramite pressioni e ricatti, quelli che sarebbero ricoveri obbligati per ricoveri volontari: si spinge cioè l’individuo a ricoverarsi volontariamente minacciandolo di intervenire altrimenti con un TSO. La funzione dell’ASO è generalmente quella di portare la persona in reparto, dove sarà poi trattenuta in regime di TSV o TSO secondo la propria accondiscendenza agli psichiatri. Esemplificativa la vicenda di M. R., condotto al CSM di Livorno per un ASO il 30 Gennaio 2008: M. in quella occasione accettò il ricovero volontario per non incorrere in un TSO, ma il 6 Febbraio, alla sua richiesta di uscire, gli venne notificato un TSO che lo costrinse a rimanere in reparto per altre due settimane.
L’obbligo di cura oggi non si limita più alla reclusione in una struttura, ma si trasforma nell’impossibilità effettiva di modificare o sospendere il trattamento psichiatrico per la costante minaccia di ricorso al ricovero coatto cui ci si avvale alla stregua di strumento di oppressione e punizione.
L’attuale situazione è frutto non solo del potere psichiatrico e della totale mancanza di informazioni in merito all’istituzione psichiatrica, ma anche delle pressioni e intimidazioni più o meno dirette che le persone finiscono per subire in ambito familiare e sociale.
Un altro dato non può essere tralasciato: il grado di spersonalizzazione ed alienazione che si raggiunge durante una settimana di TSO ha pochi eguali. Il ricovero coatto rimane un atto di violenza e rappresenta un grande trauma per chi lo subisce. Insieme al bombardamento farmacologico che mira ad annullare la coscienza di sé della persona e a renderla docile ai ritmi e alle regole ospedaliere, per i pazienti considerati “agitati” si ricorre ancora all’isolamento e alla contenzione fisica. Riprovevole la vicenda del Giugno 2006 che vide G. Casu, un venditore ambulante ricoverato in TSO a Cagliari, morire dopo sette giorni di contenzione fisica e farmacologia. A seguito di questo tragico episodio il primario del reparto è stato sospeso dall’incarico e rinviato a giudizio per omicidio colposo insieme ad una collega psichiatra.
Purtroppo i casi di morte in TSO non sono pochi. Volendone citare alcuni ricordiamo E. Idehen, morto nel Maggio 2007 a Bologna: l’uomo si era sottoposto volontariamente alle cure, ma alla richiesta di andare a casa i medici decisero per il TSO facendo intervenire la polizia alle sue insistenze; la versione ufficiale sul decesso parla di una crisi cardiaca avvenuta mentre infermieri e poliziotti tentavano di portare l’uomo nel letto di contenzione. Nel Giugno 2007 a Empoli segue la morte per arresto cardiocircolatorio di Roberto Melino, un ragazzo di 24 anni: il giovane era entrato in reparto in TSV, tramutato, come nel caso precedente, in TSO alla richiesta di andare a casa; resta da chiarire se il decesso sia avvenuto per cause naturali o in seguito alla somministrazione di qualche farmaco.
Collettivo antipsichiatrico Antonin Artaud Pisa
Per info: 3357002669
antipsichiatriapisa@inventati.org
www.artaudpisa.blogspot.com
L’ELETTROSHOCK?E’ UNA TORTURA!
È in questi giorni partita una petizione dal Congresso Nazionale della Società Italiana di Psicopatologia, appoggiata dall’AITEC (Associazione Italiana Terapia Elettroconvulsivante), rivolta al ministro della salute Livia Turco per aumentare i centri clinici autorizzati a praticare la terapia elettroconvulsivante o elettroshock, che in Italia sono oggi nove, sei pubblici (Brescia, Oristano, Cagliari, Brunico, Bressanone, Pisa) e tre privati (Verona, Bologna, Roma), per arrivare ad almeno un servizio per ogni milione di abitante in tutte le regioni.
Più in generale l’obiettivo è quello di ridestare il consenso popolare su una pratica dannosa e brutale da considerarsi una tortura, come le testimonianze di chi ha subito l’elettroshock documentano tristemente.
Le modifiche nel trattamento (anestesia totale e farmaci miorilassanti che impediscono le contrazioni muscolari, in precedenza diffuse a tutto il corpo con la conseguente rottura di denti ed ossa) riescono solo a camuffare gli effetti esteriori ma non ne cambiano la sostanza: una scarica di corrente elettrica costante di 0,9 ampere (la cui tensione varia fino ad un massimo di 450 volt, collocandosi solitamente sui 220 volt) sui lobi frontali o sull’emisfero cerebrale non dominante -TEC monolaterale- che provoca un’intensa crisi convulsiva durante la quale il cervello aumenta il suo metabolismo, il flusso e la pressione sanguigna. Ciò provoca danneggiamenti alla barriera emato-encefalica e all’equilibrio biochimico del nostro cervello. A seguito del trattamento si riscontrano molti e gravissimi effetti collaterali, quali rottura di vasi sanguigni cerebrali, regressione della capacità discorsiva, gravi e ampie perdite di memoria, persistenti emicranie, problemi cardio-circolatori e riduzione della massa cerebrale.
La validità scientifica del metodo ancora oggi non convince, o meglio non esiste: i meccanismi di azione della TEC non sono noti; l’unico dato certo, scoperto da Cerletti nel 1938, è che scariche elettriche adeguate producono un coma epilettico reversibile (quando il soggetto sopravvive o viene rianimato con successo). Per la psichiatria «l’ipotesi originale di Cerletti che l’effetto terapeutico di questa metodica fosse legato alle convulsione celebrale generalizzata è, fino ad oggi, l’unico dato documentato da numerose ricerche cliniche e pressoché universalmente accettato» mentre «rimane irrisolto il problema di come la convulsione cerebrale provochi le modificazioni psichiche» e «non è chiaro quali e in che modo queste modificazioni (dei neurotrasmettitori e dei meccanismi recettoriali) siano correlate all’effetto terapeutico» (G. B. Cassano, Manuale di Psichiatria). Ma per chi subisce tale trattamento i danni cerebrali sono ben evidenti e possono essere rilevati attraverso autopsie e variazioni elettroencefalografiche anche dopo dieci o venti anni dallo shock.
La terapia elettroconvulsivante viene portata avanti da psichiatri di impronta organicista che, con i loro metodi autoritari, invasivi ed offensivi della dignità umana, compromettono seriamente la salute di milioni di persone, prima prescrivendo farmaci e poi, quando questi non producono nel paziente i risultati sperati, suggerendo l’elettroshock, che giova alla “cura” della depressione e della tristezza nella misura in cui provoca vuoti di memoria, apatia e demenza.
La stessa genesi e storia della terapia lascia perplessi: l’idea venne nel 1938 a Ugo Cerletti e Lucio Bini dall’osservazione di maiali anestetizzati con una scarica elettrica prima di essere condotti al macello. Nel corso del ‘900 migliaia di internati furono sottoposti alla lobotomia elettrica con grande entusiasmo degli psichiatri che operavano nei manicomi poiché con essa gli “agitati” erano più tranquilli. Ma l’elettroshock non rimase chiuso nei manicomi: venne utilizzato come tortura e punizione durante la Grande Guerra e servì da ottimo strumento di repressione del dissenso durante gli anni Settanta, in Italia come in Argentina. Negli anni Ottanta quando ormai questa pratica brutale sembrava destinata al disuso, venne rivalutata e iniziò il suo riutilizzo a partire dagli USA. L’APA (Associazione Psichiatrica Americana) creò appositamente nel 1986 una task force per la raccolta di tutte le sperimentazioni di nuovi metodi elettroconvulsivanti che condussero a risultati favorevoli alla reintroduzione dell’operazione elettrica equiparata, nella sua nuova forma, ad un intervento chirurgico, o meglio, di psicochirurgia. La spinta più grande alla ridiffusione dell’elettroshock non è però da attribuire a progressi medico-scientifici, quanto a fattori puramente economici, visto che le compagnie di assicurazione statunitensi pagavano dopo il settimo giorno di ricovero solo nel caso in cui i pazienti necessitassero di interventi chirurgici.
In Italia gli studi favorevoli alla sua reintroduzione vengono recepiti nel 1996 da una circolare dell’allora Ministro della Sanità R. Bindi che definiva l’elettroshock «presidio terapeutico di provata efficacia» consigliandone l’utilizzo. Il Comitato Bioetico Italiano bocciò l’elettroshock nelle strutture pubbliche permettendolo solo in quelle private convenzionate. L’effetto principale della circolare fu quello di trasformare l’elettroshock da prestazione ambulatoriale a prestazione chirurgica con il conseguente aumento del costo (il ticket passò da 70.000 £ a 500.000 £ più i costi per le prestazioni della clinica convenzionata); a presiedere l’intervento oltre allo psichiatra troviamo ora un medico anestesista e tre infermieri.
Ci teniamo a ribadire che nonostante le moderne vesti di intervento chirurgico, l’elettroshock rimane uno strumento di tortura, una disumana violenza, un attacco all’integrità psicologica e culturale, oltre che un grande trauma, per chi lo subisce. Insieme ad altre comuni pratiche della psichiatria come il TSO (trattamento sanitario obbligatorio) e l’ASO (accertamento sanitario obbligatorio), l’elettroshock è un esempio se non un’icona della coercizione e dell’arbitrio esercitato dalla psichiatria e dalla società nei confronti di chi non riesce o non vuole normalizzarsi.
Collettivo Antipsichiatrico Antonin Artaud -Pisa
Collettivo Antipsichiatrico Violetta Van Gogh -Firenze
Collettivo Telefono Viola Milano T28
Collettivo Antipsichiatrico di bergamo
aderiscono al comunicato:
Collettivo Antipsichiatrico di Modena
sequestro di persona in psichiatria a livorno

Ieri, giovedì 7 febbraio, un uomo di 44 anni ha subito un Tso (trattamento sanitario obbligatorio) all’ Spdc di Livorno, notificatogli dopo una settimana di ricovero volontario, in risposta alle sue ripetute richieste di dimissioni.
M., ex paziente del Csm di Livorno, stanco della pesante terapia farmacologica, si era rivolto ad un medico di Firenze con il quale era riuscito a staccarsi dal Servizio di Salute Mentale, concordando una terapia meno invasiva. Mercoledì 30 gennaio la dottoressa del Csm, sotto probabili pressioni della famiglia, suona a casa di M. che non le apre. A quel punto la stessa, dopo qualche ora fa partire un Aso (Accertamento Sanitario Obbligatorio), e M., scortato da ambulanza e vigili urbani, arriva al Csm. Durante il colloquio con la dottoressa, M. accetta di farsi ricoverare volontariamente presso il decimo reparto di psichiatria di Livorno, consapevole del rischio di un ricovero coatto se si fosse rifiutato.
Nei giorni seguenti M. ha richiesto la sua cartella clinica per informarsi sia circa il regime del suo ricovero, sia sulla sua terapia farmacologica: negatagli la visione della cartella, dagli infermieri gli è stato detto di essere in Tsv (trattamento sanitario volontario). Da questo momento ha espresso più volte e chiaramente ai medici la volontà di firmare la dimissione dal ricovero e di uscire, come previsto dalle legge 180 (legge Basaglia del 1978), ma i medici non glielo hanno permesso, minacciandolo di trasformare il ricovero da volontario in obbligatorio, anche in presenza nostra e di due giornalisti, e nonostante il supporto esterno del suo medico di fiducia e di un legale.
In risposta a queste pressioni l Spdc di Livorno ha attivato il Tso, nonostante non sia soddisfatta una delle condizioni per l attivazione del provvedimento, il rifiuto delle cure, visto che M. le ha sempre accettate sia dentro al reparto, dove lui è entrato volontariamente, sia all esterno dove è in cura da un medico.
Siamo di fronte ad una serie di abusi che vanno dal ledere i diritti fondamentali dell individuo fino ad arrivare al sequestro di persona.
Ad M. è stata negata la possibilità di scegliere come, dove e con chi curarsi; di poter visionare la propria cartella clinica, per essere messo al corrente della propria diagnosi e dei farmaci a lui somministrati; di dare il consenso informato, per conoscere gli effetti dei trattamenti subiti. Ma l’ abuso più grande è stato commesso quando, dopo qualche giorno, ad M. è stato impedito di dimettersi dal reparto con spintoni e ricatti, finché non avesse firmato la richiesta per la pensione di invalidità, questo si chiama sequestro di persona. Temiamo per l’ incolumità di M. all interno del reparto, la sua volontà di uscire è stata mascherata da sintomo di malattia e viene trattata farmacologicamente, nel tentativo di neutralizzarne i comportamenti indesiderati, mettendo a rischio cosi la sua salute e non tutelandola come voglio far credere.
Ancora una volta ci troviamo di fronte al fatto che la psichiatria ripropone le stesse dinamiche che si attuavano nelle strutture manicomiali, esercitando un potere assoluto e fino a ora incontrastato.
contro gli abusi della psichiatria
Collettivo Antipsichiatrico Antonin Artaud-Pisa
335 7002669
antipsichiatriapisa@inventati.org
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