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comunicato a cura dell’ Assemblea Rete Antipsichiatrica: RESIDENZE PSICHIATRICHE: ABUSI, MALTRATTAMENTI E UCCISIONI
RESIDENZE PSICHIATRICHE: ABUSI, MALTRATTAMENTI E UCCISIONI
Questo testo affronta la violenza strutturale che regola la vita all’interno di moltissimi centri residenziali
per persone con disabilità o fragilità psichica. Si parte dai maltrattamenti avvenuti nella struttura di
Montalto di Fauglia gestita dalla Stella Maris, passando per gli abusi all’interno delle strutture della
Cooperativa Dolce di Bologna, per arrivare agli orrori della Comunità Shalom, nel bresciano. Una
violenza capillare sostenuta quotidianamente dal silenzio di moltissimi “professionisti”, tecnici dei servizi,
operatori, assistenti ed educatori.
Il 3 Ottobre 2023 al Tribunale di Pisa si terrà una nuova udienza per i maltrattamenti avvenuti nella struttura
di Montalto di Fauglia gestita dalla Fondazione STELLA MARIS. Una vicenda sepolta nel silenzio che ha
trovato nell’ultimo anno il supporto e il sostegno del Collettivo antipsichiatrico Antonin Artaud.
Il Consulente Tecnico chiamato dalla procura a relazionare sui fatti ha scritto: “Leggendo gli atti del
presente procedimento abbiamo rinvenuto sicuramente la menzione di una lunga tradizione di abuso e
violenza da parte degli operatori, radicata negli anni, e in parte tollerata, in parte ignorata della direzione
delle strutture”. Ed ancora: “In queste situazioni si sviluppano degenerazioni in cui la violenza e la
sopraffazione divengono gli strumenti usati ogni giorno, e l’istituzione perde le sue caratteristiche
terapeutiche per divenire un luogo meramente coercitivo e afflittivo” facendo riferimento a condotte “tipiche
delle istituzioni totali”. Si parla di maltrattamenti fisici, verbali e trattamenti degradanti quotidiani. Spintoni,
schiaffi, minacce e vessazioni costanti, talmente palesi da lasciar presumere abusi anche peggiori. Una
violenza non episodica ma strutturale.
Delle diciassette persone coinvolte, il processo attualmente vede ancora imputati quindici tecnici e
operatori, tra cui le due dottoresse che gestivano la struttura e il Direttore Sanitario della Stella Maris. Un
operatore ha patteggiato la pena, mentre il Direttore generale Roberto Cutajar, che ha scelto il rito
abbreviato, è stato condannato a 2 anni e 8 mesi, per essere infine assolto nel processo d’appello.
Tra gli ospiti della struttura ricordiamo Mattia, morto nel 2018 per soffocamento in seguito al blocco della
glottide dovuto alla somministrazione prolungata ed eccessiva di psicofarmaci. I continui cambi di terapia
avevano comportato disfunzionalità e rischi al momento dei pasti di cui la famiglia non è mai stata
informata. Il processo in primo grado si è chiuso con nessuna responsabilità da parte dei medici e della
struttura.
Non crediamo nella giustizia dei tribunali, sappiamo che nessuna sentenza metterà fine o scalfirà questa
violenza.
L’orrore di Montalto di Fauglia lo ritroviamo nell’uccisione per contenzione avvenuta la notte del 27 agosto
2012 all’interno della struttura ‘Casa Dolce’ di Casalecchio di Reno (in provincia di Bologna) gestita dalla
Cooperativa Sociale Dolce. Quella sera M., 20 anni, vorrebbe continuare a giocare con la playstation ma le
regole interne alla struttura non lo consentono. Gli operatori si impongono. Il giovane non cede. Si apre uno
scontro di potere che Michael perde pagando con la vita.
L’indagine del PM si concentra su tre operatori sociosanitari della cooperativa, indagati per omicidio
colposo. Secondo l’autopsia M. è morto per asfissia meccanica, soffocamento. Mentre due operatori lo
tenevano un terzo gli si sarebbe seduto sopra, all’altezza del torace. Il processo dura quattro anni e si
conclude per tutti con l’assoluzione ‘perché il fatto non costituisce reato’. Viene sostenuta la legittimità della
contenzione, la correttezza delle manovre effettuate, la loro corrispondenza ai “protocolli”. La rispettabilità
pubblica della Cooperativa Dolce, dei suoi dirigenti responsabili e di tutta la struttura ne esce intaccata,
pulita, mentre niente all’interno della stessa viene messo in discussione.
La testimonianza che abbiamo raccolto di un operatore a tempo determinato assunto a ‘Casa Dolce’ qualche
anno dopo l’uccisione di M., racconta il protrarsi di un’attitudine alla violenza verbale e al confronto fisico
punitivo/violento da parte di molti operatori della residenza, accettato pressoché da tutta la struttura come
‘normale amministrazione’.
Di recente una nuova indagine ha visto coinvolta ancora la Cooperativa Dolce per quanto riguarda un’altra
struttura in provincia di Bologna (Budrio),’Villa Donini’. Si parla di botte e insulti ai danni di persone
disabili, schiaffi in testa e umiliazioni. Dodici operatori socio sanitari dipendenti della cooperativa sono stati
interdetti dalla professione per un anno con l’accusa di maltrattamenti. Nonostante l’enormità dei fatti, sul
territorio intorno a questa vicenda regna un silenzio sovrano.
Anche quanto emerso all’interno della comunità Shalom parla della stessa violenza. Abusi sistematici,
insulti, minacce, punizioni degradanti e inumane, privazione del sonno, isolamento e crudeltà come metodo.
Una presunta Comunità terapeutica che non cura le persone: le maltratta, le umilia, le sradica dalla propria
umanità. Dove gli ‘educatori’ vengono spesso individuati tra le persone che in precedenza hanno subito lo
stesso trattamento, selezionati senza alcun tipo di formazione per dare continuità ai metodi repressivi,
avvilenti e degradanti, pratiche che ancora oggi caratterizzano la comunità. Negli anni più volte la struttura
è finita nel mirino per situazioni di tortura ben lontane da episodi sporadici o accidentali. Un’ampia
organizzazione che fa mostra di sé per la presunta accoglienza incondizionata, ma che vive di metodi
distanti anni luce dall’offrire cura e sostegno a ragazzi e ragazze che vivono periodi di fragilità. Al di là
della bella facciata che mostra all’ingresso, Shalom è disfacimento, afflizione e miseria.
Sebbene questa vicenda abbia avuto grande impatto a livello mediatico, il sensazionalismo legato al
marketing dell’informazione ha già pressochè rimosso quanto avvenuto e le sue implicazioni. Non
accettiamo la retorica della “comunità degli orrori” e della “mela marcia”, la comunità Shalom è conosciuta
e attiva da lungo tempo nel bresciano e trattamenti inumani e degradanti come abbiamo visto non sono stati
affatto un’eccezione al suo interno, come del resto in moltissime altre strutture.
Privato accreditato, grandi cooperative, fondazioni; enti che muovono molti soldi e che spesso esercitano
anche una certa influenza nei rispettivi territori: la Stella Maris ad esempio è considerata un’eccellenza a
livello nazionale, riceve abbondanti finanziamenti e onorificenze dalla Regione Toscana, la Cooperativa
Dolce è una mega cooperativa che gode di ampio appoggio e gestisce moltissimi servizi nel bolognese, la
Shalom è sempre stata sostenuta da personaggi di rilievo.
Questi racconti mettono sotto gli occhi di tutti i dispositivi coercitivi/degradanti insiti in questa tipologia di
strutture, dove le persone, ridotte ad oggetti, diventano il bersaglio di violenze e sopraffazioni quotidiane.
Luoghi dove la contenzione fisica e farmacologica è consuetudine e dove le prepotenze sono ordinarie e
strutturali.
Riteniamo sia importante non spegnere i riflettori su una violenza così estesa, capillare, non episodica,
accettata e sostenuta quotidianamente dal silenzio di moltissimi “professionisti”, tecnici e operatori,
assistenti ed educatori, ci piacerebbe partire da qui, dall’omertà che sorregge questi abusi, che non sono
episodi, ma più spesso la prassi che regola queste strutture.
Assemblea Rete Antipsichiatrica
https://assembleareteantipsichiatrica.noblogs.org/
Per condividere esperienze e riflessioni: assembleaantipsichiatrica@inventati.org
Le note al testo si possono trovare a questo link:
LINK per ASCOLTARE INTERVISTA a RADIO ONDAROSSA: VERITA’ sui MALTRATTAMENTI alla Stella Maris!
https://www.ondarossa.info/newsredazione/2023/09/verita-sugli-abusi-alla-stella-maris
Sopra il link per ascoltare l’intervista fatta come collettivo Artaud a Radio OndaRossa.
Venerdì 29 settembre scorso presso lo Spazio Antagonista NEWROZ di Pisa si è tenuta un’assemblea per parlare dei maltrattamenti contro persone disabili nella struttura di Montalto di Fauglia gestita dalla fondazione Stella Maris, in vista dell’ennesima udienza che si terrà presso il tribunale di Pisa martedì 3 ottobre davanti al quale è indetto alle ore 14 un presidio di solidarietà.
Al momento gli imputati sono 15, tra essi le due dottoresse che gestivano la struttura e il Direttore Sanitario della Stella Maris. Due imputati sono usciti di scena: un operatore che ha patteggiato la pena e il Direttore generale Roberto Cutajar che, avendo scelto il rito abbreviato, è stato condannato a 2 anni e 8 mesi di reclusione, poi è stato assolto nel processo d’appello. Tra gli ospiti della struttura, ricordiamo Mattia, morto successivamente nel 2018 per soffocamento, in seguito al blocco della glottide dovuto a un prolungato e eccessivo uso di psicofarmaci; vicenda per la quale è in corso un altro processo penale.
LA STORIA DI MATTIA
LA STORIA DI MATTIA
Mattia Giordani muore il 27 marzo 2018 mentre sta cenando con la famiglia – padre, madre e due fratelli – soffocato da un boccone di cibo. La manovra di Heimlich e qualsiasi tentativo messo in atto da medici e infermieri, arrivati in ambulanza in pochi minuti, risulta inutile. Aveva ventisei anni.
All’età di tre anni a Mattia è diagnosticata una disarmonia evolutiva. Da quel momento l’Istituto di ricovero e cura “Stella Maris” di Pisa lo prende in carico e il bambino comincia a trascorrere regolarmente periodi più o meno brevi presso una delle sue strutture: a sette anni, quando la diagnosi rileva tracce di autismo, a dieci, quando il disturbo dello spettro autistico è definitivamente certificato, e poi ancora nelle fasi successive dell’adolescenza e dell’adultità.
Mattia cresce in un ambiente accogliente sia in famiglia che a scuola e, nonostante alcuni sintomi evidenti, nei primi anni di vita è un bambino tranquillo, non aggressivo e appassionato di musica e canto.
Dopo l’esame di terza media le sue condizioni subiscono un improvviso, imprevisto e grave peggioramento: si accrescono le stereotipie, scompare il sonno notturno e un grave stato di sovraeccitazione comincia a manifestarsi attraverso frequenti attacchi di aggressività verso gli oggetti di casa. Nel settembre del 2005 la famiglia decide allora di affidare Mattia per un lungo periodo alla Stella Maris. Qui, in seguito a una nuova diagnosi di autismo psicotico, per la prima volta gli vengono somministrate robuste dosi di psicofarmaci che da subito hanno conseguenze visibili sul suo stato psicofisico generale. Il corpo si trasforma, cosce e pancia lievitano e in cinque mesi il peso aumenta di 18 chili. Mattia passa continuamente da una condizione di sedazione farmacologica di breve durata a improvvise esplosioni di rabbia, con episodi di forte aggressività, stavolta anche contro familiari e persone. In poco tempo la situazione diventa ingestibile, tanto che a quattordici anni è costretto a lasciare la scuola. Le crisi sono improvvise, e a nulla serve il mix di psicofarmaci a cui Mattia è sottoposto, in maniera sempre più invasiva e a dosi sempre più massicce. I genitori sono costretti a lasciare Mattia per tutta la giornata presso uno dei centri diurni della Stella Maris a Montalto di Fauglia (provincia di Pisa) e, al compimento dei venti anni, anche durante le ore notturne per alcuni giorni alla settimana.
Nel 2016 Mattia trascorre molte giornate nell’istituto di Montalto di Fauglia quando la struttura finisce nel mirino dei carabinieri, allertati dalla denuncia di un genitore che aveva notato la presenza di strani lividi sul corpo del figlio. Le microcamere nascoste rivelano una realtà inaspettata. Gli operatori fuori da ogni controllo e senza motivo picchiano, strattonano, trascinano per le orecchie, offendono con epiteti irripetibili i giovani ospiti. Tre mesi di registrazioni nascoste documentano più di 200 episodi di maltrattamenti. Il vero e proprio maxi processo che segue (17 indagati, 23 ospiti – fra cui Mattia – vittime dei soprusi) ha come primo effetto una condanna a due anni e otto mesi di reclusione con rito abbreviato per il direttore generale della Stella Maris Roberto Cutajar, riconosciuto colpevole di omessa vigilanza e assunzione di personale non adeguatamente formato. Cutajar sarà poi assolto in sede di processo d’appello nel giugno 2023. Un altro operatore ha patteggiato in seguito davanti al GIP ammettendo le sue colpe. A tutt’oggi va avanti il processo nonostante una serie di lungaggini burocratiche che rischiano fortemente di compromettere il giudizio degli altri imputati – i restanti 15 operatori, fra cui il direttore sanitario e le due dottoresse che operavano a Montalto.
In seguito al clamore suscitato dal processo e dallo scandalo che ne consegue, gran parte dei sanitari coinvolti vengono allontanati dalla struttura e lasciano il posto a nuovi operatori che iniziano a sperimentare nuove cure e nuove combinazioni di farmaci. A Mattia vengono modificati e aumentati i dosaggi. Nel febbraio 2018, un mese prima di morire, il corpo di Mattia subisce l’ultimo affronto nel corso di un ricovero presso il Servizio psichiatrico di diagnosi e cura dell’ospedale di Pisa. La mamma, che lo aveva salutato la sera prima lasciandolo in reparto per il riposo notturno, lo ritrova la mattina seguente legato al letto di contenzione. Riuscirà a farlo slegare solamente garantendo la sua presenza e il suo controllo continuo.
Un mese dopo Mattia muore.
Il direttore dell’Unità operativa di Psichiatria forense e Criminologia clinica dell’ospedale Careggi di Firenze Rolando Paterniti, al quale i genitori di Mattia chiederanno una consulenza tecnica in vista del processo, scriverà nella sua relazione: «La sintomatologia presentata da Mattia è inquadrabile tra i sintomi extrapiramidali da antipsicotici […].In quasi tutti gli episodi le contrazioni distoniche hanno interessato […] anche i muscoli laringei e quelli della deglutizione, causando gravi episodi di dispnea e disfagia con serio rischio di morte per soffocamento. Le crisi distoniche acute […] nel caso di Mattia sono comparse 6 giorni dopo l’introduzione della clotiapina. Questa correlazione temporale permette di affermare, con buona certezza, che sia stato proprio questo farmaco a causare la grave sintomatologia extrapiramidale […]. La condotta medica non è stata sollecita ed accorta ad impedire il verificarsi di un evento dannoso o pericoloso, ma al contrario si è caratterizzata per trascuratezza, avventatezza, e insufficiente ponderazione dei rischi, esponendo Mattia a gravi conseguenze».
Dalle cartelle cliniche i genitori vengono a sapere che negli ultimi tre mesi di vita nell’istituto Mattia aveva già avuto notevoli problemi di deglutizione durante i pasti, rischiando più volte il soffocamento con, in qualche occasione, crisi cardiache piuttosto importanti. Apprendono anche che nell’ultimo periodo le crisi si erano susseguite quasi tutte le sere, tanto che era stata necessaria la manovra di Heimlich per ben due volte durante uno stesso pasto serale. Malgrado l’invio di lunghe mail ai medici con richieste di spiegazione sugli effetti del trattamento farmacologico, e nonostante la loro presenza continua ai colloqui e agli incontri collegiali con il personale sanitario i genitori affermano ancora oggi di non essere mai stati adeguatamente avvertiti del rischio di soffocamento a cui Mattia era esposto. «Ormai ogni sera nostro figlio rischiava di morire e noi non lo sapevamo», scriverà Sondra Cerrai, madre di Mattia, nel suo libro Siamo tutti legati1, pubblicato dopo il triste epilogo.
Al processo di primo grado le due dottoresse responsabili della struttura della Stella Maris sono state assolte.
Collettivo Antipsichiatrico Antonin Artaud
via San Lorenzo 38, 56100 Pisa
antipsichiatriapisa@inventati.org
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1 Firenze, Porto Seguro, 2021. Gran parte delle fonti di questo articolo sono tratte dal testo di Sondra Cerrai e da colloqui personali con l’autrice del libro.
PISA: venerdì 3/10 PRESIDIO sotto il Tribunale in SOLIDARIETA’ alle VITTIME dei MALTRATTAMENTI alla Stella Maris
VERITA’ SUGLI ABUSI ALLA STELLA MARIS, SOLIDARIETA’ ALLE VITTIME DEI MALTRATTAMENTI !
Il 3 Ottobre 2023 alle ore 14 saremo ancora una volta davanti al Tribunale di Pisa dove si terrà una nuova udienza per i maltrattamenti avvenuti nella struttura di Montalto di Fauglia gestita dalla Fondazione STELLA MARIS. In questa ulteriore udienza dovrebbero venire sentiti gli imputati, se non ci sarà l’ennesimo rinvio funzionale evidentemente al raggiungimento della prescrizione.
Nell’estate del 2016, in seguito alla denuncia dei genitori di un giovane ospite, la struttura è stata posta sotto controllo con l’installazione di microcamere e, dopo tre mesi di intercettazioni, la Procura di Pisa, avendo prove evidenti (segnalate anche da alcune lettere anonime di dipendenti che denunciavano abusi e insabbiamenti di prove), ha configurato l’ipotesi di reato per maltrattamenti.
Tra gli ospiti della struttura, ricordiamo Mattia, morto successivamente nel 2018 per soffocamento, in seguito al blocco della glottide dovuto a un prolungato e eccessivo uso di psicofarmaci; vicenda per la quale è in corso un altro processo penale.
Il processo per maltrattamenti sta andando avanti da più di 5 anni con estrema lentezza: le udienze sono troppo diradate se si considera l’elevatissimo numero di persone invitate a testimoniare. Si tratta, infatti, del più grande processo sulla disabilità in Italia che nel periodo della pandemia (caso unico nella storia della giustizia pisana) è stato ospitato nel Palazzo dei Congressi di Pisa.
Al momento gli imputati sono 15, tra essi le due dottoresse che gestivano la struttura e il Direttore Sanitario della Stella Maris. Due imputati sono usciti di scena: un operatore che ha patteggiato la pena e il Direttore generale Roberto Cutajar che, avendo scelto il rito abbreviato, è stato condannato a 2 anni e 8 mesi di reclusione, poi è stato assolto nel processo d’appello.
I genitori e i tutori e altri testimoni già ascoltati hanno riportato le violenze subite dai ragazzi di Montalto e documentate dalle videoregistrazioni che testimoniano 208 episodi di violenza in meno di quattro mesi, una violenza –quindi- non episodica ma strutturale.
Come ha scritto nella sua relazione il Consulente Tecnico, Professor Alfredo Verde, chiamato a relazionare sui fatti avvenuti: “Leggendo gli atti del presente procedimento abbiamo rinvenuto sicuramente la menzione di una lunga tradizione di abuso e violenza da parte degli operatori, radicata negli anni, e in parte tollerata, in parte ignorata della direzione delle strutture”. Ed ancora: “In queste situazioni si sviluppano degenerazioni in cui la violenza e la sopraffazione divengono gli strumenti usati ogni giorno, e l’istituzione perde le sue caratteristiche terapeutiche per divenire un luogo meramente coercitivo e afflittivo”.
Per questi motivi e per onorare tutte le vittime degli abusi psichiatrici che ancora vengono perpetrati ai danni di persone private della libertà personale, non in grado di difendersi da sole, riteniamo che sia opportuno che l’opinione pubblica segua con attenzione le vicende di questo processo. Invitiamo tutti e tutte a partecipare al
PRESIDIO in SOLIDARIETA’ alle VITTIME dei MALTRATTAMENTI
MARTEDI’ 3 OTTOBRE ORE 14 presso il Tribunale di Pisa in Piazza della Repubblica
Collettivo Antipsichiatrico Antonin Artaud
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documento dell’ Assemblea Rete Antipsichiatrica: IN QUESTO PAESE I MORTI NON SONO TUTTI UGUALI
IN QUESTO PAESE I MORTI NON SONO TUTTI UGUALI
Nessuna morte lascia indifferenti, e l’omicidio della dottoressa Barbara Capovani ci ha colpito profondamente. Una morte sul lavoro e un femminicidio, ennesimi di una serie troppo lunga. Un omicidio efferato. Per noi dei collettivi antipsichiatrici, che da anni assistiamo attivamente le vittime dell’abuso psichiatrico e ne denunciamo pubblicamente e convintamente gli eccessi e le storture, la spaventosa morte della psichiatra pisana ha rappresentato un momento di riflessione profonda. Le righe che seguono rappresentano dunque un doveroso approfondimento frutto del nostro confronto interno.
Perché questo terribile evento deve giustamente far riflettere sotto diversi punti di vista.
Senza minimizzare in alcun modo la specificità della violenza perpetrata e subita, non possiamo fare a meno di contestualizzare quanto accaduto all’interno dell’effetto amplificatore di una violenza sistemica che permea l’intera istituzione psichiatrica. Il sistema psichiatrico è strutturalmente fondato su dispositivi oppressivi mascherati da “cura” che circolano nascostamente in tutte le relazioni, pronti a scatenarsi alternativamente sui soggetti – sempre i più deboli, per un motivo o per l’altro – che lo attraversano, almeno finché non viene denunciata pubblicamente ed esplicitamente affrontata.
L’elenco potrebbe continuare ancora a lungo.
Tali drammatici episodi avrebbero dovuto suscitare clamore e dibattiti, ma così non è stato, quasi fossero persone di serie B. Ci domandiamo perché i giornali, le televisioni e la maggior parte degli operatori e del personale sanitario che lavora nei servizi di salute mentale non prenda posizione contro i metodi coercitivi e manicomiali che hanno portato a tali violente morti.
Nei reparti psichiatrici italiani si continua a morire di contenzione meccanica, sia in regime di degenza che durante le procedure di TSO. La contenzione non è un atto medico e non ha alcuna valenza terapeutica: è un evento violento e dannoso per la salute mentale e fisica di chi la subisce; offende la dignità delle persone e compromette gravemente la relazione terapeutica. Ribadiamo la necessità di proibire, senza alcuna eccezione, la contenzione meccanica nelle istituzioni sanitarie, assistenziali e penitenziarie italiane.
Oltre al ricorso alla contenzione meccanica e farmacologica, continua ancora oggi a prevalere in molti servizi psichiatrici un atteggiamento violento, custodialistico e l’impiego sistematico di pratiche e dispositivi manicomiali: obbligo di cura, porte chiuse, grate alle finestre, sequestro dei beni personali, limitazione e controllo delle telefonate e di altre relazioni e abitudini. Ad oggi in Italia abbiamo 329 reparti psichiatrici, gli SPDC e circa 3200 strutture psichiatriche residenziali e centri diurni sul territorio dove in molti casi si sono conservati gli strumenti propri dei manicomi, quali il controllo del tempo, dei soldi, l’obbligo delle cure, il ricorso alla contenzione e l’elettroshock. Ci teniamo a ribadire che nonostante le vesti moderne l’elettroshock (praticato anche nei reparti SPDC, come quello dell’ospedale Santa Chiara di Pisa) rimane una terapia invasiva, una violenza, un attacco all’integrità psicologica e culturale di chi lo subisce. Insieme ad altre pratiche psichiatriche come il TSO, l’elettroshock è un esempio, se non l’icona, della coercizione e dell’arbitrio esercitato dalla psichiatria. Il percorso di superamento dell’elettroshock e di tutte le pratiche non terapeutiche (obbligo di cura, contenzione meccanica e farmacologica, internamento) deve essere portato avanti e difeso in tutti i servizi psichiatrici, in tutti i luoghi e gli spazi di cultura e formazione dove il soggetto principale è una persona, che insieme ai suoi cari, soffre una fragilità. Siamo convinti che ci siano persone, tra coloro che operano all’interno delle strutture sanitarie, che si rifiutano di essere complici di questo sistema di oppressione e che preferiscono slegare piuttosto che contenere, ascoltare piuttosto che mettere a tacere con i farmaci, essere solidali con chi si sottrae alle logiche di competizione. Sono loro che vorremmo al nostro fianco.
Altre violenze quotidiane all’interno delle tante strutture psichiatriche pubbliche o private convenzionate disseminate nel territorio nazionale sono meno eclatanti ma ugualmente oppressive: i colloqui con lo psichiatra spesso sono troppo brevi, giusto il tempo per darti la terapia e senza la possibilità di essere ascoltati o di esprimere i dubbi e le difficoltà. Si è obbligati a frequentare i servizi psichiatrici e costretti ad assumere psicofarmaci spesso per il resto della vita, proprio come un “diabetico prende l’insulina”. Inoltre la possibilità di ricevere un piccolo stipendio induce le persone, in carico ai centri d’igiene mentale, ad accettare spesso lavori umilianti, sottopagati, ripetitivi e poco stimolanti. L’unico interesse della psichiatria non sembra essere quello dichiarato della “cura”, ma la progressiva cronicizzazione del malessere: tutte le altre discipline mediche hanno come obiettivo la dimissione del malato, il sistema psichiatrico, invece, ti prende in carico a vita.
E non è un caso che, mentre si taglia la sanità, la Regione Toscana preveda lo stanziamento di 5 milioni di euro per ampliare la già esistente REMS (Residenza Sanitaria per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza) di Volterra. Occorre sapere che la legge 81/2014 riserva agli autori di reato dichiarati “totalmente o parzialmente incapaci di intendere e di volere per infermità mentale” – definiti “folli rei” – un iter giudiziario diverso da quello destinato ai detenuti comuni, che prevede le REMS, istituite, appunto, dopo la chiusura degli OPG (Ospedali Psichiatrici Giudiziari). In questo iter giudiziario la pericolosità sociale di derivazione manicomiale la fa ancora da padrona. Con le REMS viene infatti ribadito il collegamento inaccettabile cura-reclusione riproponendo lo stigma manicomiale. Ci si collega a sistemi di sorveglianza e gestione esclusiva da parte degli psichiatri, ricostituendo in queste strutture tutte le caratteristiche dei manicomi. La proliferazione di residenze ad alta sorveglianza, dichiaratamente sanitarie, consegna agli psichiatri la responsabilità della custodia, ricostituendo in concreto il dispositivo cura-custodia, e quindi responsabilità penale del curante-custode. Tradotto significa l’inizio di un processo di reinserimento sociale infinito, promesso ma mai raggiunto, legato indissolubilmente a pratiche e percorsi coercitivi, obbligatori e contenitivi. Il manicomio non è una struttura è un criterio. Non è solo una questione di dove e come lo fai, se c’è l’idea della persona come soggetto pericoloso che va isolato, dovunque lo sistemi sarà sempre un manicomio. Il problema resta l’isolamento del soggetto dalla realtà sociale per la sua incapacità di adattamento nei confronti di un mondo su cui nessuno muove mai alcuna questione e che nessuno mette mai in discussione. Sarebbe essenziale superare il modello di internamento, non riproporre gli stessi meccanismi e gli stessi dispositivi manicomiali. Non tutti però finiscono nelle REMS. Nelle carceri sono state istituite le Articolazioni Tutela Salute Mentale per quelle detenute e quei detenuti con una valutazione psichiatrica sopravvenuta alla detenzione, quindi successiva al giudizio – definiti “rei folli” – e che non possono perciò accedere alle REMS, che prevedono inoltre già di per sé lunghe lista di attesa. Le Articolazioni Tutela Salute Mentale sono luoghi di annichilimento della personalità che esasperano la sofferenza della detenzione con l’isolamento prolungato, la contenzione psicologica, fisica e farmacologica. Si tratta di strutture che non solo non hanno nulla di “terapeutico” ma che nascono proprio per la necessità dell’istituzione penitenziaria di contenere e sedare le intemperanze dei ristretti in relazione al contesto detentivo. Voragini su cui non vogliamo siano spenti i riflettori. Veri e propri manicomi all’interno delle carceri.
E poi c’è l’abuso di psicofarmaci all’interno dei CPR (Centri di Permanenza per il Rimpatrio) che, come testimoniato da più parti, vengono profusi anche con il cibo senza che le persone siano, quindi, consapevoli di assumerli. Lì non è previsto alcun consenso così che, addormentati e storditi, non diano fastidio, non avanzino richieste e accettino le terribili condizioni di vita all’interno di quei luoghi, pregni del più becero razzismo. Condizioni che il Ministro Piantedosi ha definito “non gradevoli”. Non staremo qui ad entrare in modo dettagliato in cosa esattamente consista questa non gradevolezza. Ci sono diverse fonti da cui poter attingere informazioni a riguardo.
Ciò che vogliamo sottolineare è che tutti questi luoghi di detenzione, prima o poi, apriranno le loro porte facendo uscire soggetti ormai assuefatti e dipendenti da psicofarmaci e assolutamente debilitati dal loro uso. Una folla di persone, ora sì, malate e comunque non certo in salute considerate le conseguenze psico-fisiche provocate dal protrarsi dell’assunzione di quei farmaci.
Siamo ben lontani, quindi, dalle facili strumentalizzazioni e prese di posizione (articoli, trasmissioni, dichiarazioni di esponenti politici o dei “soliti esperti”) molto discutibili che hanno cavalcato la notizia della tragica fine della psichiatra pisana. Alcuni, in nome della sicurezza e del controllo sociale, sono giunti addirittura a chiedere la riapertura dei manicomi. Non sono mancati neanche attacchi alla Legge 180 e ai movimenti antipsichiatrici critici verso i sempre più frequenti abusi nell’ambito della salute mentale. Molti difensori del modello organicista hanno cercato di sfruttare questa tragedia per screditare coloro che mettono in seria discussione il modello psichiatrico coercitivo.
Assemblea Rete Antipsichiatrica
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COMUNICAZIONE PAUSA ESTIVA
Le attività del Collettivo Artaud verranno sospese per le prossime due settimane. Il telefono resta attivo 335 7002669. Le assemblee settimanali riprenderanno da martedì 22 agosto e lo sportello d’ascolto antipsichiatrico riprenderà martedì 29 agosto . Per eventuali urgenze e per fissare eventuali incontri telefonateci al 335 7002669 oppure contattateci vie mail a antipsichiatriapisa@inventati.org
Collettivo Antipsichiatrico Antonin Artaud
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MOUSTAFÀ FANNANE: ENNESIMA VITTIMA DEL SISTEMA CPR
MOUSTAFÀ FANNANE: ENNESIMA VITTIMA DEL SISTEMA CPR
ovvero una morte sospetta per abuso di psicofarmaci dopo la detenzione in un Centro Per il Rimpatrio
Il 19 Dicembre 2022 a Roma è venuto a mancare Moustafà Fannane, classe 84, originario della città marocchina di Fqih Ben Salah. Ennesima morte sospetta per abuso di psicofarmaci.
Moustafà era giunto in Italia nel 2007, come molti suoi conterranei alla ricerca di un futuro migliore, e per un periodo di tempo aveva svolto una vita regolare fatta di lavoro al fine di aiutare la famiglia in Marocco in grave difficoltà economica. Descritto dai suoi conoscenti come persona gentile e educata, nel 2014 comincia ad avere delle difficoltà, perde il lavoro e l’alloggio. Come se non bastasse in questa situazione drammatica e precaria nel 2015 viene raggiunto da un decreto di espulsione, circostanza che non sarebbe mai stato in grado di affrontare dal punto di vista legale viste le condizioni in cui versava.
Nel 2019 viene trattenuto per sei mesi presso i Centri di Permanenza per il Rimpatrio (CPR) di Roma e Torino. Nell’estate 2020 nonostante la sua condizione di disagio psicologico e socio-economico verrà nuovamente condotto nel CPR. Molti residenti, nel quartiere Torpignattara a Roma dove viveva, hanno giudicato tale misura del tutto ingiusta e inappropriata nei confronti di una persona che aveva bisogno di cure e sostegno. Nell’agosto 2022 viene nuovamente arrestato e condotto nuovamente nel CPR. Verrà ritenuto idoneo a rimanere recluso. Durante questo ultimo trattenimento, in contatto con una sua conoscenza lamenterà di essere affetto da un gonfiore a carico del volto di cui non sa spiegare il motivo, circostanza notata poi da molte altre persone una volta uscito le quali sono rimaste molto sorprese dalle sue condizioni definite come qualcosa di simile a un abuso di psicofarmaci, apatia, pallore. Nella documentazione rilasciata dal centro ai legali dei familiari non risultano fogli di dimissioni, pertanto dopo 3 mesi di terapia basata sulle 25 – 50 gocce giornaliere di Diazepam, Moustafà viene rilasciato senza nessuna indicazione terapeutica o prescrizione di visita specialistica. Verrà rinvenuto in strada privo di sensi e troverà la morte nell’ospedale Vannini a sole tre settimane dal rilascio dal CPR.
Sappiamo bene che sono gli psicofarmaci lo strumento principale di gestione delle persone recluse nei Centri di Permanenza per il Rimpatrio dei migranti. Antiepilettici, antipsicotici, antidepressivi e metadone: “servono per stordire donne e uomini in modo che mangino di meno, restino più tranquilli e resistano di più al sovraffollamento, nelle gabbie in cui vengono stipati. All’ente gestore gli psicofarmaci costano meno del cibo e permettono di riempire maggiormente i CPR e allungare il tempo di permanenza di ciascun migrante nella struttura, in modo da aumentare i guadagni”. Presso i CPR “non sono previste attività, le giornate sono tutte uguali; un operatore ci ha raccontato che gli psicofarmaci sono usati per stordire le persone così “mangiano di meno, fanno meno casino, rivendicano di meno i loro diritti”. La spesa per gli psicofarmaci è altissima mentre la tutela della salute all’interno dei CPR non è affidata a figure specialistiche che lavorano per il Ssn bensì da assunti da enti gestori che mirano a risparmiare”. Sui numeri: rispetto all’esterno, su una popolazione di riferimento simile, la spesa in antidepressivi, antipsicotici e antiepilettici nella struttura di via Corelli a Milano è di 160 volte più alta, al CPR di via Brunelleschi a Torino 110, a Roma 127,5, a Caltanissetta 30 e a Macomer 25. Addirittura a Roma, in cinque anni, sono state acquistate 154.500 compresse di Buscopan su un totale di 4.200 persone transitate. In media, 36 pastiglie a testa quando un ciclo ‘normale’ ne prevede al massimo 15. A Torino la spesa in Clonazepam (Rivotril) dal 2017 al 2019 è di 3.348 euro, quasi il 15% del totale (22.128 euro) mentre a Caltanissetta tra il 2021 e il 2022 sappiamo che sono state acquistate 57.040 compresse: 21.300 solo nel 2021, a fronte di 574 persone trattenute. Significa mediamente 37 a testa. Anche a Milano il Rivotril rappresenta la metà del totale della spesa in psicofarmaci con 196 scatole acquistate in soli cinque mesi.1
Questa triste vicenda dai molti punti ancora oscuri ci invita a interrogarci come sia stato possibile che una persona in difficoltà come Moustafà sia potuto essere stato soggetto a numerosi arresti e trattenimenti presso dei CPR; se le Istituzioni abbiano mai realmente provato a fare qualcosa per questa persona. Ci domandiamo anche se il rispetto e la tutela della salute dei reclusi dentro i CPR siano garantiti a partire dalle visite mediche.
Per il momento per la morte di Moustafà è stato aperto un procedimento presso la Procura di Roma. Ci auguriamo che venga fatta chiarezza sulle reali cause del decesso di Moustafà che cercava solo una vita migliore.
Collettivo Antipsichiatrico Antonin Artaud
Collettivo Antipsichiatrico Antonin Artaud
via San Lorenzo 38, 56100 Pisa
antipsichiatriapisa@inventati.org
www.artaudpisa.noblogs.org 3357002669
1https://altreconomia.it/rinchiusi-e-sedati-labuso-quotidiano-di-psicofarmaci-nei-cpr-italiani/
UN GIORNO TIPO NELLA RESIDENZA PSICHIATRICA AD ALTA PROTEZIONE. “CURA”, O “CONTENIMENTO”?
Riceviamo e pubblichiamo questo scritto su come i reclusi in una residenza psichiatrica ad alta protezione trascorrono le giornate. Sotto il link dove potete trovare il racconto con i disegni.
UN GIORNO TIPO NELLA RESIDENZA PSICHIATRICA AD ALTA PROTEZIONE. “CURA”, O “CONTENIMENTO”?
Come sono trascorse le giornate dai detenuti in una residenza psichiatrica ad alta protezione? E’ presto detto; sebbene la detenzione in ospedale sia assai meglio rispetto a quella sperimentata in carcere, la vita in una struttura psichiatrica forense, è essenzialmente sonno e attesa. Una estenuante attesa di ciò che forse arriverà mai più per nessuno dei detenuti: il ritorno alla vita “normale”.
Le strutture psichiatriche ad alta protezione, più che dei luoghi di cura, sembrano cronicari senza via d’uscita. I servizi di salute mentale di zona, muovono intense resistenze a riprendere in cura sul territorio il folle una volta che questo è entrato nel circuito forense. Vi sono folli detenuti nel circuito forense da 4, 8 o 12 anni, talvolta a causa di reati bagatellari.
Tra le 08:00 e le 08:30 c’è la sveglia. Si può fare la doccia, cambiarsi d’abito, e riordinare il letto. Alle 08:30 noi detenuti siamo ammassati nel locale di disimpegno dell’area notte, per essere quindi tradotti nei locali dell’area giorno. Osservarci deambulare attraverso il cortile del comprensorio medico è patetico. Ci spostiamo alla spicciolata, ciondolando e strascicando i piedi, come un gruppo sparuto di folli dimenticati dal mondo. I ventri, prominenti come botti, ballonzolano su piedi che paiono sfuggire la presa del terreno come se sferici, oscillando attaccati a gambette che paiono di gomma. Ci muoviamo muti, tristi, contriti e avviliti, come vergognosi della nostra misera condizione. La struttura ci omaggia gli abiti, nel caso che noi non si abbia una famiglia che possa provvedere. Siamo ben vestiti, degli abiti sicuramente non ci possiamo lamentare! Quanto ai farmaci, il discorso è diverso: non c’è nessuno di noi che scampi i pesanti effetti collaterali degli psicofarmaci che ci somministrano con abbondanza. Questi abbracciano tutto lo spettro ammissibile: sindrome metabolica, diabete, discinesia, tremori Parkinson-simili, acatasia.
Molti detenuti all’ergastolo bianco hanno la sensazione di essere caduti in un pozzo nero senza uscita. Senza prospettive di vita innanzi, è facile abbandonare ogni speranza e ogni velleità. Autostima e fiducia in se stessi crollano presto.
Negli ampi e spaziosi locali dell’area giorno, puntualmente, tra le 08:30 e le 09:30 è distribuita la colazione: latte, the, caffè d’orzo e fette biscottate. Pare di essere ad un punto di ristoro della Croce Rossa. Nell’infermeria attigua al refettorio che svolge anche funzioni d soggiorno, ci somministrano gli psicofarmaci del mattino, e scegliamo cosa mangiare per il pranzo e la cena dell’indomani. Dopo due o tre anni di reclusione, il vitto, sempre uguale a se stesso, non si gusta più: si ingurgita come per dovere. Nella struttura ospedaliera in cui siamo reclusi comunque il cibo è assai meglio di quello scadente somministrato in carcere. Abbiamo anche la possibilità di scelta tre tre diverse portate!!! Una volta alla settimana, il sabato, un gruppo di detenuti cucina per tutti i reclusi. Possiamo allora sperimentare per vitto qualcosa di diverso e saporito, di insolito e vivificante.
Tra detenuti della struttura forense ad alta protezione si tende a socializzare poco. Forse in quanto ristretti in spazi limitati e privati delle libertà, tendiamo a mantenere fra di noi detenuti la massima riservatezza.
Tra le 09.30 e le 12:00, non sappiamo cosa fare e come impegnare il tempo; assonnati e intontiti dai farmaci, deambuliamo nell’area giorno. Qualche recluso talvolta cerca di sdraiarsi a dormire sul pavimento dei locali, o d’estate sul prato, ma questo non è consentito dal regolamento. Spesso, in molti, appoggiano il capo al tavolo del refettorio, sulle braccia conserte, e dormono seduti. I meno sedati fanno qualche partita a carte, seguono qualche trasmissione televisiva, o leggono il giornale.
Diversi detenuti della comunità hanno contatti scarsi o nulli con il mondo esterno a quello reclusorio. Guardare la televisione o ascoltare musica sui cellulari sono le principali vie di evasione e di contatto con il mondo.
Alle ore 12:00 puntuale, arriva cigolando il carrello con i contenitori termici del pranzo, inviato dalla cucina dell’ospedale. Per me il pranzo è il momento più triste della giornata. Per non disturbare gli operatori che lo somministrano, siamo incolonnati davanti al gabbiotto del cibo, zitti, muti, avviliti. Una volta avuto il vitto, silenziosi trasciniamo i piedi e ci spostiamo a sedere ai tavoli del refettorio. Consumiamo il pasto in silenzio, senza parlare, e senza convivialità. Come chi deve. I farmaci mettono fame: mangiamo con fretta e voracità, ingurgitando i bocconi ma senza gustare. Alle 12:30, puntualissimi, sparecchiamo. I detenuti di turno lavano le stoviglie, puliscono tavoli e pavimento del refettorio. I detenuti che non sono di turno nelle pulizie attendono in cortile, deambulando muti su gambe che paiono molle di gomma, oppure seduti ai tavoli di plastica del cortile, ascoltando musica. Tra le 13:30 e le 14:00 ci somministrano gli psicofarmaci. Siamo quindi aggruppati sullo spiazzo asfaltato, e spinti a muoverci dagli operatori attraverso il cortile del comprensorio medico verso l’area notte, come una dolente mandria di barcollanti e tremebondi ebeti sconfitti.
Nel rapporto con il detenuto, l’operatore dedica molta energia a spiegare opportunità e necessità della reclusione. Nel disegno, una operatrice che spiega come per tornare liberi è necessario “molto tempo”.
Tra le 14:00 e le 16:00, dormiamo. Non più accasciati con la testa reclinata sulle braccia conserte appoggiate sui tavoli, ma nei comodi letti. Capita raramente di non avere sonno o di avere voglia di muoversi nella struttura, blindata e chiusa, dell’area notte. Per lo più, il soggiorno dell’area notte è quasi completamente deserto: i farmaci che ci somministrano paiono dosati per farci dormire tutti 14 ore al giorno abbondanti, nessuno escluso. Alle 16:00, a fatica, gli operatori psichiatrici ci svegliano e ci fanno scendere dai letti. Ci riuniscono nei locali di disimpegno per condurci nuovamente all’area giorno. La raggiungiamo attraverso il cortile inerbito e alberato del complesso ospedaliero. Ci muoviamo silenziosi e scuri, ombrosi, barcollanti, ancora una volta in muta attesa di qualcosa che non arriva, quale mandria dolente di umanità dolente e sconfitta.
Il gioco delle carte è uno dei pochi passatempi socializzanti praticati nella struttura forense ad alta protezione. Al gioco delle carte partecipano anche infermieri ed OSS. I detenuti della struttura forense sono comunque poco inclini a socializzare: forse per socializzare c’è bisogno di gioia e libertà!!!
Tra le ore 16:00 e ore 19:00 attendiamo nell’area giorno, senza sapere come occupare il tempo. I più intontiti dai farmaci dormono con la testa reclinata sulle braccia conserte, seduti ai tavoli del refettorio; quelli meno sedati giocano a carte, leggono il giornale o seguono spettacoli televisivi.
Nel corso dei colloqui e delle terapie di gruppo, è facile che l’argomento scelto dal “terapeuta” sia l’attualità. In questo caso è utile, per sostenere la conversazione, aver letto il giornale o guardato la televisione. Sulla vita passata dal detenuto, sulla sua vita pregresse e sulle sue aspettative di vita sono poste poche attenzioni.
Alle ore 19:00, puntuale, arriva sferragliante e tintinnante il carrello con le razioni della cena Vengono spente la televisione e tutti i dispositivi elettronici; si mangia in silenzio, ai nostri tavoli abituali, quelli decisi dagli operatori psichiatrici al nostro arrivo in struttura. Alle ore 19:30 abbiamo finito e consumato il pasto. Sparecchiamo i tavoli, e chi è di turno pulisce le stoviglie, i tavoli e il pavimento del refettorio. Alle ore 20:00 gli operatori psichiatrici della struttura ci riportano nell’area notte, dove ci somministrano gli psicofarmaci della sera e andiamo quindi a dormire.
Nell’area notte della struttura, c’è un ampio soggiorno in cui troneggia la televisione. Per chi si alza presto il mattino o che tarda ad addormentarsi la sera, è una occasione per guardare film o telegiornali in solitudine.
Dalle ore 20:00 alle ore 08:00 dormiamo nelle nostre stanza un sonno nero, greve, sudato e senza sogni, percorso come dalle scosse elettriche della discinesia tardiva, o accartocciati su noi stessi, o comunque accasciati nei letti in posizioni innaturali e bizzarre. A vederci sdraiati tutti insieme, a colpo d’occhio, sembriamo birilli lanciati per aria e lasciati cadere a terra da un gioco cosmico senza senso alcuno.
LINK per vedere il reportage “La STORIA DI MATTIA – Il più grande processo per maltrattamenti ai disabili in Italia ”
https://www.rainews.it/rubriche/spotlight/video/2023/07/Spotlight-del-25072023-d08c6796-2baf-4725-aec4-d6ec2d18133d.html
Questo è il link per vedere il reportage andato in onda domenica 23 luglio su Rainews24 dal titolo “La STORIA DI MATTIA – Il più grande processo per maltrattamenti ai disabili in Italia ” a cura di Maria Elena Scandaliato. Un’ indagine sulla morte di Mattia Giordani e sui maltrattamenti avvenuti nel 2016 nella struttura per disabili di Montalto di Fauglia in provincia di Pisa gestita dalla fondazione della Stella Maris.