L’ELETTROSHOCK?E’ UNA TORTURA!

  • March 4, 2008 5:30 pm

 


È in questi giorni partita una petizione dal Congresso Nazionale della Società Italiana di Psicopatologia, appoggiata dall’AITEC (Associazione Italiana Terapia Elettroconvulsivante), rivolta al ministro della salute Livia Turco per aumentare i centri clinici autorizzati a praticare la terapia elettroconvulsivante o elettroshock, che in Italia sono oggi nove, sei pubblici (Brescia, Oristano, Cagliari, Brunico, Bressanone, Pisa) e tre privati (Verona, Bologna, Roma), per arrivare ad almeno un servizio per ogni milione di abitante in tutte le regioni.
Più in generale l’obiettivo è quello di ridestare il consenso popolare su una pratica dannosa e brutale da considerarsi una tortura, come le testimonianze di chi ha subito l’elettroshock documentano tristemente.
Le modifiche nel trattamento (anestesia totale e farmaci miorilassanti che impediscono le contrazioni muscolari, in precedenza diffuse a tutto il corpo con la conseguente rottura di denti ed ossa) riescono solo a camuffare gli effetti esteriori ma non ne cambiano la sostanza: una scarica di corrente elettrica costante di 0,9 ampere (la cui tensione varia fino ad un massimo di 450 volt, collocandosi solitamente sui 220 volt) sui lobi frontali o sull’emisfero cerebrale non dominante -TEC monolaterale- che provoca un’intensa crisi convulsiva durante la quale il cervello aumenta il suo metabolismo, il flusso e la pressione sanguigna. Ciò provoca danneggiamenti alla barriera emato-encefalica e all’equilibrio biochimico del nostro cervello. A seguito del trattamento si riscontrano molti e gravissimi effetti collaterali, quali rottura di vasi sanguigni cerebrali, regressione della capacità discorsiva, gravi e ampie perdite di memoria, persistenti emicranie, problemi cardio-circolatori e riduzione della massa cerebrale.
La validità scientifica del metodo ancora oggi non convince, o meglio non esiste: i meccanismi di azione della TEC non sono noti; l’unico dato certo, scoperto da Cerletti nel 1938, è che scariche elettriche adeguate producono un coma epilettico reversibile (quando il soggetto sopravvive o viene rianimato con successo). Per la psichiatria «l’ipotesi originale di Cerletti che l’effetto terapeutico di questa metodica fosse legato alle convulsione celebrale generalizzata è,  fino ad oggi, l’unico dato documentato da numerose ricerche cliniche e pressoché universalmente accettato» mentre «rimane irrisolto il problema di come la convulsione cerebrale provochi le modificazioni psichiche» e «non è chiaro quali e in che modo queste modificazioni (dei neurotrasmettitori e dei meccanismi recettoriali) siano correlate all’effetto terapeutico» (G. B. Cassano, Manuale di Psichiatria). Ma per chi subisce tale trattamento i danni cerebrali sono ben evidenti e possono essere rilevati attraverso autopsie e variazioni elettroencefalografiche anche dopo dieci o venti anni dallo shock.
La terapia elettroconvulsivante viene portata avanti da psichiatri di impronta organicista che, con i loro metodi autoritari, invasivi ed offensivi della dignità umana, compromettono seriamente la salute di milioni di persone, prima prescrivendo farmaci e poi, quando questi non producono nel paziente i risultati sperati, suggerendo l’elettroshock, che giova alla “cura” della depressione e della tristezza nella misura in cui provoca vuoti di memoria, apatia e demenza.
La stessa genesi e storia della terapia  lascia perplessi: l’idea venne nel 1938 a Ugo Cerletti e Lucio Bini dall’osservazione di maiali anestetizzati con una scarica elettrica prima di essere condotti al macello. Nel corso del ‘900 migliaia di internati furono sottoposti alla lobotomia elettrica con grande entusiasmo degli psichiatri che operavano nei manicomi poiché con essa gli “agitati” erano più tranquilli. Ma l’elettroshock non rimase chiuso nei manicomi: venne utilizzato come tortura e punizione durante la Grande Guerra e servì da ottimo strumento di repressione del dissenso durante gli anni Settanta, in Italia come in Argentina. Negli anni Ottanta quando ormai questa pratica brutale sembrava destinata al disuso, venne rivalutata e iniziò il suo riutilizzo a partire dagli USA. L’APA (Associazione Psichiatrica Americana) creò appositamente nel 1986 una task force per la raccolta di tutte le sperimentazioni di nuovi metodi elettroconvulsivanti che condussero a risultati favorevoli alla reintroduzione dell’operazione elettrica equiparata, nella sua nuova forma, ad un intervento chirurgico, o meglio, di psicochirurgia. La spinta più grande alla ridiffusione dell’elettroshock non è però da attribuire a progressi medico-scientifici, quanto a fattori puramente economici, visto che le compagnie di assicurazione statunitensi pagavano dopo il settimo giorno di ricovero solo nel caso in cui i pazienti necessitassero di interventi chirurgici.
 In Italia gli studi favorevoli alla sua reintroduzione vengono recepiti nel 1996 da una circolare dell’allora Ministro della Sanità R. Bindi che definiva l’elettroshock «presidio terapeutico di provata efficacia» consigliandone l’utilizzo. Il Comitato Bioetico Italiano bocciò l’elettroshock nelle strutture pubbliche permettendolo solo in quelle private convenzionate. L’effetto principale della circolare fu quello di trasformare l’elettroshock da prestazione ambulatoriale a prestazione chirurgica con il conseguente aumento del costo  (il ticket passò da 70.000 £ a 500.000 £ più i costi per le prestazioni della clinica convenzionata); a presiedere l’intervento oltre allo psichiatra troviamo ora un medico anestesista e tre infermieri.
Ci teniamo a ribadire che nonostante le moderne vesti di intervento chirurgico, l’elettroshock rimane uno strumento di tortura, una disumana violenza, un attacco all’integrità psicologica e culturale, oltre che un grande trauma, per chi lo subisce. Insieme ad altre comuni pratiche della psichiatria come il TSO (trattamento sanitario obbligatorio) e l’ASO (accertamento sanitario obbligatorio), l’elettroshock è un esempio se non un’icona della coercizione e dell’arbitrio esercitato dalla psichiatria e dalla società nei confronti di chi non riesce o non vuole normalizzarsi.



Collettivo Antipsichiatrico Antonin Artaud -Pisa
Collettivo Antipsichiatrico Violetta Van Gogh -Firenze
Collettivo Telefono Viola Milano T28
Collettivo Antipsichiatrico di bergamo


aderiscono al comunicato:
Collettivo Antipsichiatrico di Modena