APPELLO per il MANTENIMENTO DEFINITIVO e GARANTITO dei COLLOQUI AUDIO-VISIVI negli ISTITUTI PENITENZIARI.

  • July 3, 2020 3:11 pm

PER IL MANTENIMENTO DEFINITIVO E GARANTITO DEI COLLOQUI AUDIO-VISIVI NEGLI ISTITUTI PENITENZIARI.

APPELLO ALLE ISTITUZIONI, ALLA SOCIETÀ CIVILE, AI DETENUTI, ALL’ASSOCIAZIONISMO E AI LIBERI CITTADINI

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Covid-19: la sospensione dei colloqui, le rivolte, la rappresaglia.

La dichiarazione di emergenza sanitaria, a seguito della pandemia di covid-19, ha comportato come prima misura la sospensione dei colloqui nelle carceri.
In prigione, il rischio di contagio è alto, dato che – in condizioni “normali” – oltre la metà dei detenuti ha tra i quaranta e gli ottant’anni e che è altissima la percentuale di coloro che presentano almeno una malattia cronica o un sistema immunitario compromesso. Tuttavia, più che la paura di fare la “fine del topo” in caso di contagi, è stata la sospensione delle visite dei familiari a fare male e a dare il via alle rivolte di inizio marzo 2020. Da sempre, la letteratura carceraria e le testimonianze dei reclusi confermano che il colloquio è l’unica boccata d’aria vitale che permette di sentirsi ancora umani.
Dopo quarant’anni, i detenuti sono tornati sui tetti delle carceri, hanno occupato i corridoi, sono insorti contro un provvedimento che tagliava il loro unico contatto col mondo, coi figli, con i partner, coi genitori. Nelle molte rivolte – a Modena, Foggia, Salerno, Napoli, etc. – sono stati incendiati materassi e alcune suppellettili. Almeno seimila detenuti ne hanno preso parte. Quattordici hanno drammaticamente perso la vita. A corpi ancora caldi, senza alcuna autopsia, senza alcun esame tossicologico, istituzioni e organi di stampa si sono affrettati a dichiarare che tutti i decessi sono avvenuti per overdose da cocktail di droghe pesanti.
In molti istituti si sono registrate segnalazioni di vere e proprie rappresaglie, con trasferimenti in massa punitivi e violenze da parte del personale di polizia penitenziaria. In alcuni casi gli agenti avrebbero agito anche contro detenuti che non avevano preso parte alle rivolte, anziani e malati. I fatti di cronaca sono numerosi. Alcuni esempi:
− nel carcere di Opera gli agenti avrebbero usato manganelli sulle braccia e sulle mascelle dei prigionieri e avrebbero inferto calci nei testicoli;
− nel carcere di Melfi i detenuti sarebbero stati denudati, picchiati, insultati, messi in isolamento e costretti a firmare fogli in cui dichiaravano di essere accidentalmente caduti;
− nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, dopo una pacifica battitura delle sbarre (sistema non violento per fare rumore in segno di protesta), quattrocento agenti in tenuta antisommossa sarebbero entrati con volti coperti e mani guantate per reprimere violentemente i “rivoltosi”.
Decine di agenti hanno ricevuto avvisi di garanzia per il reato di tortura. I fatti sono ancora al vaglio degli inquirenti, ma destano grande angoscia e preoccupazione in ogni sincero cittadino democratico.

Cosa significa fare un colloquio in carcere.

Fare un colloquio di persona in carcere non è così semplice da sopportare né piacevole come si pensa. I detenuti sono perquisiti, denudati e osservati nell’ano. Anche i familiari sono perquisiti, sebbene in modo meno invasivo. Moltissimi prigionieri risiedono in istituti lontani dal luogo di residenza: per fargli visita, le famiglie devono percorrere centinaia di chilometri, moltissime ore di viaggio, con una spesa economica spesso insostenibile per l’aereo, il traghetto, il treno o l’automobile. Donne, anziani e bambini stanchi e provati dal lungo viaggio entrano in carcere per riabbracciare il loro congiunto, senza che nessuno offra loro un po’ d’acqua. Il colloquio avviene sotto l’occhio vigile dell’autorità, che interviene per impedire un bacio solo un po’ passionale tra marito e moglie, o per richiamare un bambino troppo vivace che ha il desiderio di alzarsi e correre qua e là. Terminato il breve tempo del colloquio, i saluti devono essere rapidi e i blindati si richiudono rinnovando ogni volta, senza pietà, la separazione.
Molti detenuti non hanno famiglia in Italia; moltissimi risiedono in regioni distanti da casa; per una moltitudine di famiglie il costo dello spostamento per un colloquio diretto è insostenibile.
Eppure, nonostante questo, il colloquio in carcere rimane l’unica cosa per cui valga la pena lottare, sebbene l’istituzione faccia il possibile per renderlo il meno appetibile possibile.

Perché tutto non vada perso.

Le dimostrazioni dei detenuti hanno ottenuto un risultato imprevisto e importante: la possibilità di accedere ai colloqui via Skype.
I colloqui via Skype non sono una novità legata alla pandemia. Erano stati avviati in via sperimentale in alcuni istituti e, con una circolare del 19 gennaio 2019, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e la Direzione Generale Detenuti e Trattamento hanno tratto un bilancio della sperimentazione dando il via alla possibilità del colloquio telematico ai detenuti di “media sicurezza”. La Circolare stabilisce che i collegamenti audio-visivi sono paragonabili ai colloqui ordinari e che li sostituiscono, per un massimo di sei collegamenti al mese della durata di un’ora. La piattaforma usata è Skype for business, che si avvale della rete intranet del Ministero della Giustizia e che pertanto “fornisce le garanzie necessarie in termini di sicurezza”. Il collegamento è visibile al personale incaricato da una postazione remota. In caso di comportamenti “non corretti del detenuto” o dei familiari, la comunicazione viene interrotta, con la conseguenza della interruzione del diritto alla video-chiamata da parte del detenuto coinvolto. Il collegamento telematico è dunque sicuro, controllato e pensato dall’Amministrazione Penitenziaria per “facilitare le relazioni familiari”.
Questo era lo stato dell’arte, rimasto sperimentale, fino allo scoppio della pandemia.
La novità è che molti detenuti hanno potuto accedere per la prima volta ai colloqui via Skype, finalmente introdotti in molti penitenziari italiani.
L’introduzione dei collegamenti audiovisivi – dice il garante dei detenuti di Livorno Giovanni De Peppo – alleggerisce “il clima di preoccupazione per la sospensione delle visite” e ha stemperato le tensioni. Questo conferma che le rivolte sono rientrate a seguito dell’introduzione dei contatti telematici con le famiglie, e che tale introduzione è da ritenersi una conquista.
L’emergenza scatenata dal covid-19 ha messo in luce l’importanza vitale dei colloqui per i prigionieri. Come evidenziato dai garanti per i detenuti, i colloqui via Skype dovrebbero essere estesi a tutti i detenuti, al di là della sezione di appartenenza. Non solo a quelli in media sicurezza, ma anche a quelli in Alta Sicurezza e in tutti gli altri reparti. In gioco ci sono i diritti all’affettività, all’amore familiare, alla genitorialità e al coniugio, che sono diritti inviolabili dell’Uomo e devono pertanto essere garantiti e protetti.
L’accelerazione dell’uso di collegamenti audio-visivi, in sostituzione dei colloqui di persona sospesi, è una vittoria dei detenuti: il sistema penitenziario si era infatti limitato in un primo momento a sospendere le visite ampliando il numero di telefonate, ed è stato grazie alle dimostrazioni che si è riusciti a strappare questa importante apertura.
L’ottenimento del colloquio via Skype permette a molti detenuti di evitare le profanazioni corporali della perquisizione integrale, di evitare il carico di fatica, di giornate lavorative perse e di aggravio economico delle famiglie. Ma non solo. Attraverso il monitor il detenuto ha potuto per la prima volta dopo molti anni rivedere la cucina di casa, la camera da letto, i giochi che i figli non possono portare in carcere. Ha potuto rivedere i colori e sentire i rumori della vita domestica che la memoria aveva cominciato a cancellare.
È il momento di ascoltare e di dare la parola agli “ultimi”. Da alcuni penitenziari si leva la voce che chiede di mantenere i colloqui audiovisivi anche una volta usciti dall’emergenza. Lo hanno chiesto, per esempio, i detenuti di Livorno in una lettera al Presidente della Repubblica e al Ministro della Giustizia. È importante raccogliere il loro appello perché è dalla sinergia tra “dentro” e “fuori” che si possono estendere diritti e si può far sì che le conquiste non vengano cancellate con un colpo di spugna.

Troppo spesso si dimentica che anche la popolazione detenuta è tutelata dalla nostra Costituzione e dalle carte internazionali dei diritti umani.
Troppo spesso si dimentica che ogni nostro diritto non è stato generosamente elargito, ma è stato conquistato con un carico di sangue e lotta, anche in condizioni estreme.
Troppo spesso si dimentica che i diritti costituzionali sono il risultato del sangue versato dalla lotta partigiana contro il nazifascismo. Che i diritti sindacali sono il risultato delle lotte dei lavoratori e del loro tributo di vite umane. Che i diritti di genere sono il risultato della mobilitazione di milioni di donne liberatesi dalla persecuzione e dalla discriminazione del patriarcato. Che il miglioramento delle condizioni di vita dei detenuti sono il risultato di una mobilitazione per i diritti civili da parte di quei settori della società che sono stati in grado di ascoltare le ragioni degli “ultimi”.

SI FACCIA NOSTRO L’APPELLO, PROVENIENTE DALLE CELLE, A CHI HA RUOLI E COMPETENZE PER INTERVENIRE, AFFINCHÉ I COLLOQUI AUDIOVISIVI VIA SKYPE NON CESSINO, SIANO ESTESI E GARANTITI A TUTTI I DETENUTI SENZA DISCRIMINAZIONI E SIA PERMESSO AL PRIGIONIERO DI SCEGLIERE TRA IL COLLOQUIO DI PERSONA E QUELLO AUDIO-VISIVO.

Perché tutto non vada perso; perché chi è morto, chi ha subito violenze e torture e chi ha avuto il coraggio di manifestare le proprie preoccupazioni sappiano che non tutto è stato vano; perché il nostro sentirci vicini ai “dannati della terra” sia fruttuoso di risultati in termini di solidarietà e di contributo al miglioramento delle condizioni di vita di tutti.

PRIMI FIRMATARI:
William Frediani, scrittore,
Silvia Fruzzetti, resp. CARC Toscana,
Yairaiha onlus,
Sandra Berardi, Pres. Yairaiha onlus,
Carlo Alberto Romano, docente Università di Brescia,
Samuele Ciambrello, garante regionale dei detenuti Campania,
Francesca de Carolis, giornalista,
Mario Spada, architetto,
Vincenzo Scalia, criminologo University of Winchester,
Caterina Calia, avvocato,
Gerardo Pastore, docente Università di Pisa,
Francesco Maisto, garante dei detenuti Milano,
Simonetta Crisci, avvocato,
Giuristi Democratici,
Eleonora Forenza, ex deputato, dirigente nazionale del Partito della Rifondazione Comunista,
Fabio Mugnaini, docente Università Siena,
Francesca Vianello, docente Università di Padova,
Giuseppe Mosconi, docente Università di Padova in pensione,
Francesco Ceraudo, ex Pres. Associazione Medici Penitenziari,
Nicoletta Dosio, attivista no TAV,
Giusy Torre, Yairaiha onlus,
SenzaConfine,
Antonio Perillo, PRC-SE,
Giuseppe Lanzino, avvocato Yairaiha onlus,
Aurora d’Agostino, avvocato,
Mario Pontillo, volontario penitenziario,
Carmelo Musumeci, scrittore e attivista per l’abolizione dell’ergastolo,
Damiano Aliprandi, giornalista,
Mario Arpaia, pres. Ass. Memoria Condivisa,
Gianluca Schiavon, resp. naz. giustizia PRC,
Lisa Sorrentino, avvocato Yairaiha onlus,
Grazia Paletta, volontaria penitenziaria,
Pietro Ioia, garante detenuti di Napoli,
Ex DON, ex Detenuti Organizzati Napoli,
Francesco Cirillo, giornalista e scrittore,
Maurizio Nucci, ex pres. Camera Penale Fausto Gullo CS,
Domenico Bilotti, docente Università Magna Grecia,
Giovanni Russo Spena, PRC,
Partito della Rifondazione Comunista – Sinistra Europea,
Italo Di Sabato, Osservatorio sulla Repressione,
Osservatorio sulla Repressione,
Giuseppe Ferraro, docente Università Federico II Napoli,
Francesca Rinaldi, Milano,
Francesca Montalto, docente,
Paolo Conte, avvocato,
Fortunato Maria Cacciatore, docente Università della Calabria,
Carla Gueli, insegnante e dottore di ricerca,
Sara Manzoli, operatrice Sociale coop. Aliante Modena,
Giorgio Canali, musicista,
Giuseppe Milazzo, avvocato,
Maria Grazia Caligaris, Ass. Socialismo, diritti e riforme,
Frank Cimini, giornalista,
Vittorio Da Rios,
Pasquale De Masi, Yairaiha onlus,
Valerio Guizzardi, Papillon Rebibbia – sez. Bologna,
Brunella Bertucci, comitato Piazza Piccola Cosenza,
Partito Risorgimento Socialista,
Maurizio Neri, part. Risorgimento Socialista Roma,
Ugo Maria Tassinari, scrittore,
Ilario Ammendolia, scrittore,
Antonio Esposito, scrittore,
Yasmine Accardo, Campagna LasciateCIEntrare,
Valentina Colletta, avvocato,
Rocco Altieri, Centro Gandhi Pisa,
Gianfranco Castellotti, Centro Culturale Berkin Elvan,
Maria Grazia Vanelli, operaia, Centro Culturale Pablo Neruda,
Gea Tahiri, Assistente sociale,
Ass. Il Viandante, Roma,
Genny Federigi, Pres. Ass. Gabbia/No Roma,
Ass. Gabbia/No, Roma,
MGA sindacato nazionale forense,
Beppe Battaglia, volontario penitenziario,
Elisabetta Della Corte, docente Università della Calabria,
Bruno Monzoni, Redazione Ristretti Orizzonti,
Pietro Vangeli, Segretario Nazionale del P.CARC,
Pablo Bonuccelli, Direttore di Resistenza (P.CARC),
Igor Papaleo, Direttore delle Edizioni Rapporti Sociali,
Collettivo Antipsichiatrico Antonin Artaud, Pisa.

LABORATORIO D’ARTE di GRUPPO “Nel labirinto di Minosse”.

  • June 20, 2020 9:18 am

LABORATORIO D’ARTE Nel GRUPPO DI AUTO-AIUTO presso il collettivo antipsichiatrico ANTONIN ARTAUD “Nel labirinto di Minosse”.

Riprende il gruppo di auto-aiuto attraverso percorsi espressivi di Musicarterapia nella Globalità dei Linguaggi (GdL). Il laboratorio è gratuito e si tiene MARTEDI 23 GIUGNO 2020 alle 18.00. Ritrovo all’ingresso del parco comunale in Via Garibaldi 72. Per info: 3357002669 – Collettivo “Antonin Artaud” , 3331104379 – Lisa Doveri – MusicArterapeuta nella Gdl.

Il laboratorio nasce dall’idea di creare un gruppo di pari che si sostiene a vicenda senza autorità e non propone pertanto nessuna terapia alternativa. La presenza della musicArterapeuta ha come finalità quella di e-durre, cioè di tirare fuori, di promuovere l’espressione e la comunicazione con tutti i linguaggi creando i presupposti per il benessere e la crescita dell’individuo attraverso percorsi di auto-aiuto nel gruppo. Le attività rappresenteranno occasioni per conoscere sé stessi, i propri potenziali tracciando quindi un percorso individuale e di gruppo attraverso il piacere dell’espressione di sé nel gruppo: la parola “piacere” viene da placet, placenta, ed è così che in un vissuto di gruppo, che diventa grembo sociale, non giudicante, che ognuno può riscoprire o rafforzare il piacere personale di vivere. Promuove pertanto la crescita e lo sviluppo attraverso la musica, il movimento, il gioco, la produzione creativa, la capacità di improvvisazione con momenti di sdrammatizzazione, alla scoperta di nuovi canali espressivi partendo dal corpo, capace di comunicare sempre e comunque. L’intento è quello quindi di attivare il più possibile la creatività personale, facendo riemergere i potenziali inespressi contenuti in ognuno di noi, attraverso il gruppo che metterà al centro la persona rendendolo protagonista di una storia unica e personale, che viene così valorizzata.
La Globalità dei Linguaggi (GdL) è una disciplina della comunicazione e dell’espressione con tutti i linguaggi, più precisamente una disciplina formativa nella comunicazione ed espressione degli e fra gli esseri umani, con finalità di ricerca, educazione, animazione, terapia. Il campo, l’oggetto specifico della disciplina è precisamente la comunicazione e l’espressione degli e tra gli esseri umani. “Con tutti i linguaggi” o “globalità dei linguaggi” significa anzitutto apertura e disponibilità a tutte le possibilità comunicative ed espressive, verbali e non verbali senza previe esclusioni. In questo senso la Gdl assume un significato antropologico, bio-fisio-psicologico e sociale.
Il gruppo di auto-aiuto si inserisce in questo contesto nelle attività del collettivo antipsichiatrico e in continuità con le attività che la Globalità dei Linguaggi percorre da ormai 40 anni. La Gdl nasce infatti proprio come pratica antipsichiatrica negli anni ottanta, dall’esigenza dell’ideatrice del metodo, Stefania Guerra Lisi, di aiutare la figlia Elvira, celebrolesa e autistica dalla nascita. Partendo dal corpo come “corpo sensibile” in comunicazione emo-tonica costante, la GdL mette tutti su un piano comune, per cui abbiamo tutti competenze a potenzialità comuni, pur presentando situazioni psico-fisiche diverse. L’altro viene percepito come parte integrante dello stesso, cioè di noi. Nel momento in cui noi abbiamo questa percezione, pur rispettando l’altro nella sua diversità, lo integriamo nella possibilità di condividere la nostra amicizia. Questa è la premessa sostanziale perché non ci sia la violenza intesa come appropriazione e spossessamento dell’identità dell’altro. I comportamenti dell’altro acquisiscono inoltre un valore diverso, e anche quando sembrano apparentemente insensati la Gdl, dà comunque “senso al nonsenso”, partendo e passando dal corpo che esprime un’innata voglia di vivere e di sopravvivere.

Link a trasmissione su Radio Onda Rossa: ANTIPSICHIATRIA: LIBERTA’ per ALICE

  • June 17, 2020 2:33 pm

questo è il link per sentire la trasmissione su Radio Onda Rossa:
http://www.ondarossa.info/redazionali/2020/06/antipsichiatria-liberta-alice

ANTIPSICHIATRIA: LIBERTA’ per ALICE
Il Collettivo antipsichiatrico Antonin Artaud sul suo blog ha raccolto la denuncia di un padre che chiede giustizia per sua figlia internata in una struttura privata convenzionata con una storia di abusi che va avanti da tanto/troppo tempo e che purtroppo è una delle tante storie di abusi psichiatrici.
Con un compagno del collettivo raccontiamo la storia di Alice e la battaglia per la sua liberazione.

http://www.ondarossa.info/redazionali/2020/06/antipsichiatria-liberta-alice

La lettera di denuncia del padre di Alice è possibile leggerla a questo link:
https://artaudpisa.noblogs.org/post/2020/05/29/lettera-di-denunica-di-un-padre-che-chiede-giustizia-per-la-figlia/

Di seguito i riferimenti del Collettivo Antipsichiatrico Antonin Artaud:

sito web: www.artaudpisa.noblogs.org
email: antipsichiatriapisa@inventati.org
Tel: 335 7002669

su Radio BlackOut: intervista a cura del collettivo Artaud sulla vicenda di Antonio e sua figlia

  • June 2, 2020 4:21 pm

Su Radio BlackOut un approfondimento a cura del Collettivo antipsichiatrico Antonin Artaud per parlare della denuncia di Antonio, che racconta l’ennesima storia di abuso sanitario e psichiatrico subito dalla figlia. Qui sotto il link per sentire l’intervista intorno al minuto 1:23

Bello come una prigione che brucia: corrispondenze dalle carceri

LETTERA di DENUNCIA di un PADRE CHE CHIEDE GIUSTIZIA per la FIGLIA

  • May 29, 2020 4:23 pm

Raccogliamo la lettera di denuncia di un padre che chiede giustizia per sua figlia.  Ci sembra importante raccontare questa storia di abusi che va avanti da troppo tempo. È necessario attenzionare maggiormente ciò che avviene all’interno di alcune strutture psichiatriche private convenzionate, che in Italia sono più di 3.500, spesso veri e propri luoghi di reclusione in cui è difficile entrare e verificare quali pratiche e terapie vengano attuate.

Ci preme sottolineare inoltre come il ruolo degli Amministratori di Sostegno diventa sempre più invasivo e determinante per la vita di persone vittime della psichiatria che di fatto non hanno commesso alcun reato. Vi chiediamo di pubblicare la storia di Antonio e sua figlia sui vostri canali e sui vostri siti, di inoltrarla il più possibile nella speranza che altri si uniscono alla sua battaglia per la liberazione di Alice.

 

Collettivo Antipsichiatrico Antonino Artaud

antipsichiatriapisa@inventati.org
www.artaudpisa.noblogs.org 335 7002669

 

 

Racconto la mia storia e quella di mia figlia nella speranza che possiate aiutarmi a tirar fuori mia figlia da una situazione di oppressione fisica e psicologica che è costretta a subire da tre anni a questa parte a causa di malasanità e mal gestione della sua condizione da parte delle istituzioni.

Attraverso le vie legali non sono riuscito a cambiare la condizione di mia figlia. Il caso ha anche una valenza più generale, perché ritengo che possano esserci anche tante altre persone in questa situazione.

 

Il mio nome è Antonio Di Vita, sono residente a Montevarchi (AR) e mia figlia si chiama Alice Di Vita e ha 26 anni. Tre anni fa Alice a seguito di un presunto arresto cardiaco fu ricoverata nel Reparto di Rianimazione di Careggi a Firenze. Dopo circa dieci giorni di coma indotto le viene eseguita una tracheotomia e le viene applicata una cannula a scopo precauzionale. Dopo gli esami strumentali (RM,TC e ECC) ripetuti ad otto giorni di distanza, le condizioni di Alice sono definite “incredibilmente ottime”. Nessuna conseguenza cerebrale, nessuna conseguenza motoria e psico-reattiva. I responsabili del Reparto di Terapia Intensiva danno disposizione al trasferimento di mia figlia da Careggi di Firenze al reparto di Riabilitazione dell’Ospedale del Valdarno (Alice era residente a Montevarchi). La prognosi indicata è di circa dieci giorni. Affermano anche che la cannula della tracheotomia dovrebbe essere rimossa entro tre giorni.

 

Inaspettatamente, per ragioni non chiare, Alice è invece trasferita all’Istituto Don Gnocchi di Firenze, dove rimarrà per più di un anno subendo le pene dell’inferno. Legata al letto o alla sedia, imbottita di psicofarmaci, con infezioni e piaghe causati degli escrementi non rimossi adeguatamente e frequenti attacchi di panico. La cannula della tracheotomia non viene rimossa e genera aderenze alle corde vocali, paralizzandole e granulomi all’interno della trachea (di natura incerta, benigna o maligna). Da subito, a mia insaputa, viene nominato un amministratore di sostegno (ADS) nella persona del fratellastro. A seguito di mia opposizione l’ ADS viene sostituito da un’avvocatessa la quale però si disinteressa totalmente di mia figlia. Avendo constatato di persona la mal gestione e le atrocità subite da mia figlia ho presentato diversi esposti alla Procura della Repubblica di Firenze. L’ADS, probabilmente spinto dall’Istituto Don Gnocchi stesso, presenta due istanze per trasferire Alice in altri istituti, prima Villa Le Terme dove la maggioranza dei degenti sono in stato vegetativo, e poi un altro nel quale avrebbe dovuto passare tutta la vita . Io richiedo al giudice di trasferire mia figlia in una struttura pubblica specializzata in otorinolaringoiatria e di sostituire l’ADS con la mia persona. Il giudice non acconsente che sia io ad occuparmi di mia figlia ma sostituisce la l’ADS con un altro avvocato.

 

Il nuovo ADS fa trasferire Alice dal Don Gnocchi all’Ospedale del Valdarno in un reparto chiamato Modica, dove viene scoperto che le diagnosi del Don Gnocchi non sono corrette o sono addirittura false. Viene verificato che, a dispetto di quanto affermato dal Don Gnocchi, Alice può deglutire e può essere alimentata in modo naturale e non più attraverso Peg allo stomaco. Si predispone un piano di recupero psico-fisico attraverso fisioterapia e riduzione/eliminazione degli psicofarmaci somministrati dal Don Gnocchi. Mia figlia ha da subito un grande recupero di forza e vitalità, anche espressiva. Riprende a camminare da sola, sente i bisogni fisiologici e tutto sembra finalmente andare per il meglio. Addirittura sembra che debba essere dimessa, ritornare a casa con me (essendo residenti nella stessa abitazione di Montevarchi) e proseguire la fisioterapia come paziente esterna. Mi viene detto che con venti sedute di tre ore e mezzo di riabilitazione. Alice recupererebbe completamente la postura e la tonicità muscolare. Però questo apparente lieto fine della storia viene bruscamente cambiato dal fatto che l’ADS per motivi non chiari predispone il trasferimento di Alice in un’altra struttura, stavolta privata, l’Istituto Agazzi di Arezzo. Perché?

 

Alice entra nell’Istituto Agazzi il 2 ottobre 2018. Fin dalle prime settimane mia figlia regredisce, sia fisicamente che mentalmente. Non sente più i bisogni fisiologici e non ricorda più le cose recenti. Da questi fatti e dalla sua espressione mi accorgo presto che le stanno dando di nuovo psicofarmaci. Probabilmente gli stessi del Don Gnocchi. Alice perde di vitalità ed autonomia di giorno in giorno mostrandosi sempre stanca e assente. Io ho faccio presente questa situazione all’ADS il quale non mostra alcun interesse al riguardo. Faccio notare che il principale problema di mia figlia, la rimozione della cannula della tracheotomia, non è stato minimamente affrontato. Richiedo e sollecito di far visitare mia figlia in centri specializzati per questa patologia, alcuni di essi da me stesso contattati e disponibili a visitare Alice. L’ADS mi risponde testualmente così “Decido io, dove, come e quando far visitare Alice”. Il problema che l’ADS non si pone è il fatto che in quelle condizioni Alice è sempre ad alto rischio di arresto respiratorio, come è poi avvenuto per almeno tre volte. L’ADS non ha provveduto neanche a far visitare mia figlia dal Reparto Otorino di Arezzo dove da anni ci sono eccellenti risultati per questo tipo di patologie. Perché???

 

A seguito dei rifiuti e dell’arroganza mostrata dall’ADS e a causa del continuo peggioramento di mia figlia scrivo al giudice tutelare facendo presente quanto accade e richiedendo espressamente di provvedere per far visitare mia figlia da medici e strutture competenti in materia a cominciare da ospedali di terzo livello dove ci sono reparti specializzati. Verbalmente la giudice dispone per queste visite e l’ADS fa ricoverare Alice a Volterra dove è sottoposta a broncoscopia (inutile perché già fatta e già a conoscenza della diagnosi). Da Volterra Alice è trasferita ad Empoli per visita, dove viene espresso timore nel sottoporre mia figlia ad operazione, ma si afferma anche che la cosa si potrebbe risolvere con multipli interventi in sette -otto mesi.

Io ricontatto quei centri specializzati per problemi alle corde vocali con i quali avevo già discusso, i quali mi richiedono prima di tutto la stessa cosa. “Sua figlia è capace di deglutire?” Alla mia risposta affermativa, a seguito di accertamento diagnostico in mio possesso che ho letto telefonicamente a loro, dicono che l’intervento operatorio sarebbe molto più semplice e rapido di quanto invece era stato affermato dall’Ospedale di Empoli. Mi chiedo perché Alice non viene fatta visitare in uno di questi centri specializzati, a partire proprio dall’Ospedale di Arezzo.  Alice da Volterra è di nuovo riportata all’Istituto Agazzi dove nel mese di febbraio va incontro a due arresti respiratori con ricoveri immediati al Pronto Soccorso di Arezzo e con ripetute ostruzioni della cannula dovuti al muco (meccanismo di difesa per rigetto naturale della cannula). A seguito di questi eventi e del fatto che Alice è in pratica parcheggiata in questo istituto senza essere curata per il suo principale problema faccio un ulteriore esposto attraverso la Guardia Di Finanza di San Giovanni Valdarno nel 2019.

 

A inizio maggio 2019, ho richiesto tramite istanza al giudice tutelare di Arezzo di  autorizzare la nomina di un CTP (Consulente Tecnico Di Parte) e la revoca dell’ ADS, in più di prendere atto della volontà di Alice di essere collocata presso la mia abitazione. In subordine chiedevo di poter disporre di nuove perizie mediche su Alice in merito alla possibile rimozione della canula. Ulteriore istanza è stata presentata con simili richieste il 6 febbraio 2020.

 

Il fatto principale è che a mia figlia viene negato il diritto alla cura. Come tutti i cittadini di uno stato democratico mia figlia ha il diritto di essere visitata non da uno, ma da quattro, cinque, dieci venti specialisti per cercare di risolvere il suo problema. Mi chiedo anche come può una persona recuperare da un problema se si tiene internata in un istituto, privata della propria libertà, delle amicizie, degli affetti e di tutti gli stimoli positivi che si hanno quando ci possiamo muovere nella natura e nei colori delle stagioni. Neanche se fosse una criminale pericolosa avrebbe un trattamento simile.

Richiedo gentilmente a Voi un aiuto per salvare la vita di mia figlia, in quanto ritengo che in pratica si tratti di una morte annunciata, e per portare alla luce questi fatti gravissimi che potrebbero accadere a chiunque di noi in un paese che si ritiene democratico, civile e di diritto. Vi ringrazio sentitamente.

Nell’attesa di un vostro interessamento, cordiali saluti

Antonio Di Vita

 

 

 

Illustrazione di Massimo Benucci sul testo di Artaud “lettera ai direttori dei manicomi””

  • May 17, 2020 7:38 pm

Pubblichiamo un’illustrazione e disegni di Massimo Benucci sul testo “lettera ai direttori dei manicomi” di Antonin Artaud

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opuscolo “GESTIRE UNA CRISI”

  • May 12, 2020 11:45 am

gestire una crisi_web

Pubblichiamo l’opuscolo “GESTIRE UNA CRISI” che è una traduzione dell’originale “Navigating Crisis” del gruppo Icarus Project (http://theicarusproject.net/).

L’icarus project immagina una nuova lingua e cultura in grado di ragionare sulle esperienze di “malattia mentale” piuttosto che cercare di adeguare le vite a un contesto convenzionale.

ALCUNE RIFLESSIONI SULL’EMERGENZA

  • April 23, 2020 11:39 am

Reflexiones_Sobre_La_Emergencia Traduzione in spagnolo

ALCUNE RIFLESSIONI SULL’EMERGENZA

Stiamo vivendo un momento molto difficile e drammatico per la nostra società. Se da una parte si assiste ad un progressivo aumento del malessere individuale e di conseguenza del numero di persone che stanno vivendo con difficoltà la solitudine a cui sono costrette, dall’altra c’è il rischio di un aumento dei contrasti interpersonali e della conflittualità familiare dovuti alla convivenza forzata. Le donne che subiscono violenza domestica si vedono obbligate a coabitare con i loro aggressori, aumentano i casi di persone giovani costrette, date le difficoltà di sostenere un canone d’affitto, a tornare a vivere con la famiglia d’origine, portando così a una rinnovata centralità il modello di famiglia patriarcale. Anche i bambini e gli adolescenti, privati della libertà di socializzare, giocare e interagire, si trovano a vivere una situazione particolarmente difficile.

Come collettivo antipsichiatrico siamo preoccupati per l’aumento dei suicidi, per il frequente ricorso al TSO (Trattamento Sanitario Obbligatorio), per il possibile aumento del consumo di psicofarmaci e della contenzione fisica all’interno dei reparti psichiatrici di diagnosi e cura. Denunciamo l’utilizzo del taser per sedare le persone in difficoltà, come è avvenuto qualche settimana fa all’interno di un ufficio postale di Torino dove un uomo è stato stordito dai carabinieri e lasciato a terra in attesa dell’arrivo dell’ambulanza, a causa di un diverbio scoppiato con le altre persone presenti nell’ufficio postale poiché privo di mascherina.

Preoccupante anche la situazione negli Istituti di pena già in stato di sovraffollamento cronico. Mai come ora si rende evidente la necessità del superamento del carcere con modelli di pena alternativi. Improrogabile un’amnistia generale, la liberazione dei detenuti per le lotte sociali, dei tossicodipendenti, dei sofferenti di presunte patologie psichiatriche e in generale di tutti coloro che scontano pene per reati connessi alle fallimentari leggi proibizioniste sulle droghe.

La crisi economica e sociale che stavamo vivendo, prima dell’inizio della pandemia, rischia di amplificarsi e travolgere la maggior parte della popolazione. In Italia il Covid-19 ha accelerato un processo in corso da anni, volto a demolire il Servizio Sanitario Nazionale a beneficio delle sempre più numerose cliniche private, mediante politiche bipartisan di tagli, aziendalizzazione e privatizzazione; è difficile pensare a una reale tutela della salute quando la priorità da parte delle Asl e delle aziende ospedaliere è quella di rispettare i bilanci.

Da subito il Covid-19 ha mostrato di “essere un virus per ricchi” e sempre più persone iniziano a capire che non siamo tutti sulla stessa barca. Un prezzo altissimo lo sta già pagando chi non ha una casa o è costretto a  condividerla con altri in spazi inadeguati; chi è obbligato a svolgere il proprio lavoro senza i mezzi di sicurezza idonei, chi l’ha perso o chi è impossibilitato a portarlo avanti poiché in nero. C’è poi chi non può beneficiare dello smart working e della teledidattica perché non possiede un computer in casa e una connessione internet affidabile. Ma come fa chi non ha documenti, chi è senza casa, chi non ha accesso ai servizi sanitari, all’ammortizzatori sociali? Le persone che si trovano in strada per necessità rischiano un ulteriore inasprimento della loro situazione, dal punto di vista giudiziario e sanitario. Ci chiediamo che ripercussioni avrà questo stato di emergenza su chi vive già in una condizione di isolamento ed esclusione?

Mentre assistiamo al martellante appello all’unità nazionale, milioni di persone si trovano ancora costrette ad andare al lavoro, il più delle volte su mezzi pubblici sovraffollati, senza protezioni di alcun tipo e soprattutto in settori assolutamente non essenziali come quello della produzione di armi o di beni lusso.

È molto probabile che chi ci governa tenterà di far pagare i costi di questa emergenza alle lavoratrici, ai lavoratori e ai soggetti più fragili; non c’è alcuna volontà di aggredire i grandi patrimoni privati attuando meccanismi di redistribuzione della ricchezza. Le emergenze sociali e sanitarie chiedono un cambiamento nella distribuzione delle risorse collettive che invece, negli ultimi decenni, sono state dirottate senza sosta dal pubblico al privato, con il plauso di industriali e banchieri.

Solo in questi ultimi giorni ci stiamo rendendo conto di come molti contagi siano avvenuti all’interno di Fondazioni e Istituzioni private, nelle RSA (Residenze Sanitarie Assistite) e nelle residenze psichiatriche senza che siano state prese misure di sicurezza adeguate. All’interno di queste strutture un’umanità indifesa soggiace spesso silenziosamente all’abuso sociale di chi l’ha dichiarata ormai improduttiva e quindi sacrificabile. I responsabili delle strutture, quando si sono manifestati nuovi casi, hanno deciso di trincerarsi dentro e di chiudere ogni contatto con l’esterno, pur non avendo i mezzi per contrastare la diffusione del virus (nella regione Lombardia, secondo la delibera emessa, chi è anziano, poiché troppo a rischio, non dovrebbe essere curato in terapia intensiva quindi le responsabilità sono a livello regionale). Il risultato in molte zone è la diffusione massiccia dell’epidemia e a farne le spese sono in primo luogo gli anziani over 80, gli intrasportabili e lo stesso personale sanitario che lavora a rischio della propria vita. 

In una struttura psichiatrica in provincia di Genova gli effetti causati dall’epidemia di Coronavirus sono stati drammatici: su 40 ospiti 38 sono risultati positivi al tampone e la malattia ha fatto registrare per il momento tre morti. A Milano nella RSA della Baggina ci sono stati 200 decessi, in provincia di Brescia in una struttura per donne ex-psichiatrizzate le perdite di vite umane sono state 22. Tra le altre regioni la Toscana non è da meno: su 320 RSA di cui 56 commissariate e affidate a gestione Asl ci sono stati circa 170 decessi. Una riflessione sullo Stato garante è dovuta: il governo a inizio marzo aveva dichiarato che la situazione era sotto controllo ma è stato subito smentito dai fatti. I tamponi per il personale sanitario sono arrivati in ritardo e le mascherine si stanno diffondendo alla spicciolata a due mesi distanza dall’emergenza mentre i governatori giocano al palleggio delle proprie responsabilità, nelle zone “sospese” come la Valseriana, intanto si sono sacrificati gli anziani e i soggetti più vulnerabili. Vedremo che cosa ci prospetterà la cosiddetta fase 2.

Come non pensare anche ai morti nelle Rems e nelle carceri a causa del Covid19? Una situazione come quella attuale dimostra che il superamento delle istituzioni totali debba essere fra gli obiettivi delle nostre lotte. I pazienti psichiatrici affetti da Covid 19 sono doppiamente a rischio: secondo la testimonianza di un medico in Lombardia gli psicofarmaci interferiscono con le cure ponendo un problema immediato di dosaggio, che a sua volta provoca uno stato depressivo facilitando l’azione del virus o uno stato euforico in cui il paziente spesso si strappa la mascherina d’ossigeno a rischio della vita. In pratica questi medici che non sono psichiatri ma internisti o virologi si trovano a modulare una terapia su dei pazienti di cui ignorano completamente la storia clinica.

Da settimane i media continuano a descrivere questa realtà come uno stato di guerra, in cui i nostri ospedali sono le odierne trincee, in una narrazione dei fatti tesa ad alimentare quella paura ed insicurezza collettiva sulla quale si legittimano e trovano consenso tutte le scelte della gestione securitaria cui stiamo assistendo.

L’utilizzo sempre più generalizzato dei social e delle tecnologie digitali ispira nuovi paradigmi della sorveglianza e riconfigura l’organizzazione del lavoro; certo i social network facilitano i contatti interpersonali ma non sostituiranno mai il bisogno di relazioni sociali non mediate intrinseco alla nostra specie; c’è il rischio piuttosto che le nuove tecnologie finiscono per stravolgere e inaridire ulteriormente i rapporti sociali già parecchio sfilacciati da modelli economici, politici e culturali che ci vengono presentati come ineluttabili. La retorica che ci presenta il nuovo paradigma digitale è del tutto subordinata a logiche di  controllo totale e iper sfruttamento. Non dimentichiamo inoltre che ogni singola connessione non fa che arricchire le multinazionali dei Big Data oltre a riempirne gli archivi con i nostri dati personali che consentiranno profilazioni sempre più raffinate.

Fondamentalmente la costruzione mediatica di una contrapposizione tra la libertà individuale e la salute pubblica è stata coltivata ad arte dai mezzi di comunicazione. Si è scelto di criminalizzare i comportamenti individuali e farli diventare un vero e proprio capro espiatorio per nascondere gli interessi degli industriali, che chiedevano e chiedono a gran voce di continuare la produzione nonostante gli evidenti rischi di nuovi contagi e focolai. Nel contempo il cittadino diventa complice e, sentendosi investito del ruolo di sceriffo, finisce per denunciare chi, a parer suo, non rispetta le norme.

È evidente che i dispositivi di protezione individuale e il mantenimento della distanza di sicurezza siano utili per contenere il contagio, ma il rischio è di finire in una spirale di controllo sociale repressivo e permanente. Se da un lato il senso di responsabilità ci impone di rispettare le misure di distanziamento sociale per arginare il contagio e preservare la salute collettiva, dall’altra non possiamo non rivendicare come tale scelta, apparentemente convergente con le restrizioni imposte dai decreti, sia mossa da ragioni ben diverse da quelle del Governo. Oltre allo smantellamento del sistema sanitario ad opera dei governi degli ultimi anni non va dimenticato come i nuovi dispositivi di controllo della popolazione (repressione del dissenso e delle condotte devianti, tracciamento degli spostamenti, militarizzazione delle strade, negazione del diritto di sciopero ecc …) cui è ricorso lo Stato in questo periodo in nome della salute pubblica, molto probabilmente resteranno anche a emergenza finita e andranno ad arricchire quell’armamentario di decreti sicurezza e legislazione di emergenza che già oggi limita le nostre libertà individuali e collettive. Ci sarà da comprendere, vigilare e forse difendersi da un futuro “Stato Dottore” che sarà sempre più legittimato a controllarci e medicalizzarci in nome di una salute pubblica sempre più lontana dai bisogni di tutti.

L’attuale pandemia dice con chiarezza che bisogna spostare lo sguardo dal profitto economico ai reali bisogni della umanità e del pianeta, perché in certe situazioni o ci si salva tutti, e insieme, o non si salva nessuno.

 

Collettivo Antipsichiatrico Antonin Artaud

antipsichiatriapisa@inventati.orgwww.artaudpisa.noblogs.org – 3357002669

“Un contributo antispsichiatrico sull’impatto del COVID-19” a cura del Collettivo Antipsichiatrico SenzaNumero di Roma

  • April 19, 2020 4:26 pm

Pubblichiamo il contributo del Collettivo Antipsichiatrico SenzaNumero di Roma

https://senzanumero.noblogs.org/post/2020/04/14/un-contributo-antispsichiatrico-sullimpatto-del-covid-19/

Un contributo antipsichiatrico sull’impatto del COVID-19

La situazione che stiamo vivendo costituisce un attacco frontale alla nostra esistenza su più fronti e ci spinge individualmente e, talvolta, collettivamente a riflettere sui meccanismi di controllo messi in atto, sull’effetto della repressione sulla nostra quotidianità e sull’impatto a breve e lungo termine che tutto questo avrà sulle nostre reti.
Sin dall’inizio dell’emergenza, si sono moltiplicati i contributi, le riflessioni e le analisi sul tema COVID-19, e come collettivo antipsichiatrico abbiamo sentito l’esigenza di confrontarci, interrogandoci sul contributo che ci interessava apportare alla discussione in corso. Ci siamo resx conto che, come spesso accade, anche nelle analisi che reputiamo più valide e condivisibili, manca un pezzo importante di ragionamento (fatte alcune eccezioni, vedi https://educattivi.noblogs.org/post/2020/04/02/corona-virus-ordinanze-e-marginalita/; https://artaudpisa.noblogs.org/post/2020/04/01/link-a-intervista-su-radio-blackout-la-psichiatria-ai-tempi-del-covid-19/):

come stanno e dove sono le persone psichiatrizzate?

Rispondere a questa domanda non è importante solo per capire materialmente le condizioni di vita di queste persone in una fase di impoverimento del contatto e delle relazioni, ma anche per aggiungere un elemento di analisi dei dispositivi di repressione e controllo che si stanno articolando in questo periodo.

Eppure, di salute mentale si sta parlando, anche più del solito, nei mezzi di informazione. Ma la salute di chi? A che fine? Da un lato c’è la psicologia prêt-à-porter, che si sostanzia di articoli, post, decaloghi su come prevenire l’ansia o la depressione, dispensando consigli e strategie per affrontare nel migliore dei modi la quarantena e l’isolamento sociale imposti. In pratica un modo per addolcire la pillola, cullandoci nell’illusione di un bene superiore che ci unisce come comunità: la salute pubblica. I servizi di supporto psicologico, nati anche comprensibilmente in questa fase, rischiano di alimentare questo meccanismo, perché finalizzati a contenere le diverse forme di disagio derivanti dalla situazione e a favorire l’accettazione dello stato di cose.
Dall’altro lato, si insiste spesso sulla pressione a cui è sottoposto il personale medico-sanitario che sta gestendo l’emergenza, che costituisce un importante fattore di rischio per il burnout e sembra aver portato in alcuni casi al suicidio. Anche in questo caso, forme di disagio che generalmente vengono invisibilizzate o contrastate perché disfunzionali alla macchina produttiva della società capitalista, trovano uno spazio nella narrazione perché strumentali ad alimentare una retorica di unità popolare.
Allo stesso modo, l’ipocondria e l’alienazione sociale, che generalmente vengono stigmatizzate, ridicolizzate e sminuite, sono ora incoraggiate perché funzionali a sostenere i meccanismi di sospetto, distanza e delazione verso chi “infrange le regole”. Ecco che la malattia mentale, quando serve, non è più un problema.

Ma torniamo alla domanda iniziale: che ne è di tutte quelle forme di disagio psichico che comunque è impossibile far rientrare in questa narrazione dominante? Ci sembra che i meccanismi di stigma e invisibilizzazione non siano affatto cambiati. Cosa sta succedendo realmente non lo sappiamo: le informazioni sono indirette, spesso giornalistiche e non c’è alcun dato ufficiale. Possiamo presupporre che i Trattamenti Sanitari Obbligatori (T.S.O.) stiano continuando come d’abitudine: il decreto-legge dell’8 marzo 2020 – che ha rinviato la maggior parte delle udienze nei procedimenti civili e penali – include le udienze di convalida dei T.S.O. da parte dei giudici tutelari tra i procedimenti che non vengono invece sospesi. Inoltre, alcuni articoli di giornale (https://www.nursetimes.org/quarantena-e-isolamento-mandano-in-tilt-gli-italiani-numero-di-tso-in-costante-aumento/83466/amp) parlano di un aumento dei T.S.O. in alcune città, come Torino.

È facile immaginare che il dispositivo del T.S.O., da sempre al servizio del mantenimento dell’ordine sociale, sia in questa fase complice del controllo capillare che si intende esercitare sui corpi che resistono: il 10 marzo è uscita la notizia di una donna di 78 anni che, col sostegno dei familiari, intendeva opporsi al ricovero presso il policlinico di Monza disposto per alcuni sintomi da lei presentati, che facevano pensare al contagio da COVID-19; le forze dell’ordine sono a quel punto intervenute e hanno effettuato un T.S.O. in attesa dell’esito del tampone (https://www.ilmessaggero.it/salute/storie/coronavirus_rifiuta_ricovero_ospedale_monza_tso_ultime_notizie-5102818.html).

Le telecamere dei telegiornali ci portano ogni giorno nei reparti di terapia intensiva, scavando nel vissuto dei pazienti per allertare la popolazione. Nelle ultime settimane si è iniziato a dare attenzione anche alla situazione critica delle Residenze Sanitarie Assistenziali (R.S.A.) che all’inizio dell’emergenza sono state trattate come depositi di vite di scarto (le persone anziane) dove scaricare parte dei pazienti che le terapie intensive non riuscivano più a ospitare. Sui reparti psichiatrici invece continua a regnare il silenzio: come vengono tutelati i pazienti? E il personale che ci entra in contatto? Le persone esterne hanno diritto di visita? Parte del personale medico sta iniziando a chiedere l’adozione di linee guida nazionali in merito per evitare un “nuovo caso R.S.A.” (http://www.quotidianosanita.it/scienza-e-farmaci/articolo.php?articolo_id=83473).

Ci preme infine sottolineare che la retorica del #iorestoacasa, che esalta gli aspetti romantici e privilegiati dell’isolamento, non tiene conto delle oppressioni di genere, classe e salute. Chi vive situazioni di violenza domestica, non può restare a casa serenamente. Chi non può permettersi il lusso di godersi il tempo libero della quarantena, non può restare a casa perché deve uscire a lavorare. Chi vive una situazione di disagio psichico non può essere costretto a fare affidamento solo sulla famiglia / conviventi e privarsi totalmente delle reti di supporto, cura e condivisione, che sono spesso l’unica strategia di resistenza in un mondo stigmatizzante e mattofobico.

Ci raccontano che facciamo tuttx parte di una grande comunità che lotta insieme contro un nemico, il virus. Noi vogliamo invece ricordare che, al di là di ogni retorica, ci sono vite che continuano a non valere, vite che continuano a essere di scarto, invisibili, ribelli, che non si identificano in questa comunità nazionalpopolare. Noi ci sentiamo di farne parte.

SENZANUMERO – Collettivo Antipsichiatrico

“SCUOLA e MEDICALIZZAZIONE” un articolo di Chiara Gazzola

  • April 19, 2020 9:12 am

Pubblichiamo un articolo di Chiara Gazzola  dal titolo “Scuola e medicalizzazione” uscito su Arivista n°442 aprile 2020

“Scuola e medicalizzazione”

di Chiara Gazzola

La scuola italiana è ben lungi dall’essere una comunità educante. Tagli alle risorse e aumento di certificazioni dimostrano quanto le difficoltà espresse da ragazze/ragazzi vengano lette come sintomi di malattie e affrontate in termini medici e farmacologici.

<<La verità è la menzogna più profonda.>> Friedrich Nietzsche

La nostra epoca, a causa di una proficua pianificazione, è caratterizzata da un diffuso malessere esistenziale e dal dilagare di menzogne, indorate dal termine anglosassone fake news.
Il trionfo del neoliberismo invade anche tutti i contesti educativi e formativi. La scuola, perdendo i valori pedagogici di attenzione ai diritti e ai bisogni, acquisisce peculiarità aziendali evidenziate da neologismi (debiti, crediti, profitto, competenze, ottimizzazione dei tempi, raggiungimento di risultati): i continui tagli alle risorse inducono a un’elevata competizione fra i plessi con “offerte formative” di addestramento al mercato del lavoro, test di valutazione standardizzati, abolizione di interdisciplinarietà ed elaborazione critica delle conoscenze.
Nella scuola primaria, abolite le compresenze di insegnanti, l’approccio al sapere basato sulla ricerca è spesso sostituito da apprendimenti ottenuti in tempi ristretti e valutati attraverso quiz. Si innesca una concorrenzialità irrispettosa delle complessità tipiche dell’età evolutiva che produce ansia da prestazione e discriminazione fra chi emerge e chi è costretto nelle retrovie.
La tendenza a svilire e soppiantare il sapere umanistico, pedagogia compresa, a favore di applicazioni tecnicistiche si origina dal criterio EBE (Evidence based education, “istruzione basata sull’evidenza”), orientamento ideologico nato in Inghilterra negli anno 1980-’90 sotto i governi Thatcher e Blair, con l’obiettivo di circoscrivere ogni specializzazione accademica all’interno di esigenze produttive. Depauperando la relazione educativa e i percorsi di crescita anche la libertà professionale dell’insegnante è minacciata da un’omologazione che produce un divario fra chi tira i remi in barca e chi sceglie di assumersi gravose responsabilità.
Questo criterio trova coerenza in una selezione della popolazione scolastica, tanto che più si impoveriscono le risorse all’istruzione più aumentano le certificazioni (diagnosi neuropsichiatriche, BES – Bisogni Educativi Speciali, DSA – Disturbi Specifici dell’Apprendimento, cioè dislessie, discalculie ecc. che in Italia sfiorano il 4% della popolazione contraddicendo i riscontri della letteratura neuroscientifica: quanti i falsi positivi?). Si concretizza un’ingerenza delle istituzioni clinico-sanitarie su quelle scolastiche. Il determinismo organicista trova così una sponda fertile per diagnosticare e “curare” soggetti socialmente deboli, discriminando scelte di vita e vincolando approcci pedagogici.

Il coinvolgimento al sapere

In alcuni progetti scolastici e nelle circolari ministeriali si riscontrano ripetutamente lemmi avvincenti, con un’insistenza tale da farli corrispondere ai loro significati opposti. Che senso ha la “soggettività” quando diventa specchio di imposizione di uniformità? È una menzogna affermare che il rispetto per le soggettività debba prevedere un Piano Didattico Personalizzato (PDP) in quanto l’attenzione alle singole esigenze dovrebbe essere intrinseca ad ogni relazione educativa, senza supporti vincolanti. I PDP inducono a ridurre le aspettative tramite strumenti compensativi e dispensativi, producono uno stigma che tramutano una difficoltà momentanea (ad es. la sofferenza dovuta a un trauma, a un lutto o altre esperienze infelici) in cronicità, cioè in un giudizio permanente.
La correlazione fra basso rendimento scolastico e deficit intellettivo/disagio socio-economico è una forzatura ideologica: molte esperienze pedagogiche dimostrano che quando la relazione educativa sa offrire i giusti stimoli, senza imporre criteri formativi e valutativi, il coinvolgimento al sapere si ravviva spontaneamente. Eppure il basso rendimento scolastico viene spesso associato a “comportamenti non gestibili”, diventa cioè un sintomo da ricondurre a un deficit del bambino/a, deresponsabilizzando la didattica.
La “disabilità intellettiva”, nomenclatura ereditata dal DSM-5 (manuale delle malattie mentali, quinta edizione) in sostituzione del “ritardo mentale”, copre il 68,4% delle disabilità certificate.
Nelle cartelle cliniche neuropsichiatriche si trovano espressioni come: deficit di felicità; scarso senso di colpa; difficoltà di codifica delle informazioni sociali; disordine dell’identità; carenza di adattabilità; reazione incontrollata di fronte alle frustrazioni; deficit di empatia; manifestazioni emotive povere/eccessive; propensione innaturale a lasciare la propria patria, quest’ultima dedicata a minori stranieri non accompagnati. C’è da stupirsi se il 12% delle certificazioni riguarda le nuove generazioni migranti?
Minkowski definì l’anomalia come “un elemento di variazione individuale che impedisce a due esseri di potersi sostituire in modo completo”, proponendo un approccio filosofico in grado di superare la dicotomia sano/patologico per affermare quanto sia ipocrita l’imposizione di un giudizio conformante e quanto autoritario il voler ricondurre i comportamenti a una giustezza assoluta che faccia coincidere la normalità con la verità.
Il tentativo di dare una codificazione scientifica alle anomalie di comportamento è vecchio quanto la psichiatria ma, essendo questo un ambito prettamente culturale, le dimostrazioni si avvalgono di giudizi morali che diventano clinici per un atto di magia del marketing. Del resto è il DSM (il manuale delle malattie mentali redatto dalla psichiatria americana) a dichiararlo: nella sua quinta edizione del 2013 si legge: “Le cause organiche sono ancora sconosciute”. Non a caso la psichiatria è l’unica specializzazione medica che rende ufficiali le patologie soltanto quando ha a disposizione la molecola individuata come farmaco elettivo. Fra gli esempi più noti il metilfenidato (MPH), brevettato nel 1954 dalla Ciba-Geigy; negli anni ’70 negli USA vengono diagnosticati 150.000 casi di deficit attentivo; nel 1980 il DSM-III include questa patologia (ADD), da curare con MPH, alla quale nel 1994 il DSM-IV aggiunge l’iperattività (ADHD). Allargati i criteri diagnostici, nel 1998 si raggiungono i 6 milioni di minori curati con una sostanza che tuttora l’OMS classifica nella stessa tabella delle molecole psicoattive più nocive; gli ultimi dati delle prescrizioni americane si avvicinano agli 11 milioni, a partire dai 2 anni di età, ma le cifre si fanno via via imprecise a causa della tendenza a descrivere comorbidità (diagnosi multiple) con conseguente cocktail farmacologico.

Effetti collaterali molto gravi

Il giro d’affari degli psicofarmaci è talmente elevato che i bilanci delle case produttrici preventivano cause legali e risarcimenti. Questa tendenza è esportata in molti Paesi nonostante aumentino le voci critiche della pediatria, della biologia e della pedagogia; in Italia l’ADHD funge da spartiacque per altre certificazioni, i questionari per lo screening – rinnegati dai medesimi autori dopo anni di diffusione – nei documenti ufficiali di casa nostra sono considerati “strumenti oggettivi”. I fautori della sperimentazione (screening nelle scuole) dei primi anni 2000, che ha riportato nelle farmacie il MPH, sono tuttora i responsabili di Linee guida, Protocolli, Registri dove si afferma che “la mancata disponibilità di interventi psico-educativi non deve essere causa di ritardo nell’inizio della terapia farmacologica”.
Il Registro ADHD è obbligatorio dopo la declassazione del farmaco, ma paradossalmente nel Registro non vengono monitorati tutti i minori ai quali viene prescritto, ma soltanto quelli sottoposti anche a terapia psico-educativa (“trattamento combinato”). In attesa dei dati completi, ci sono pressioni sul Ministero affinché tale Registro venga abolito.
Tutti i dati sul consumo di psicofarmaci in età pediatrica rilevano un aumento esponenziale: l’European Journal of Neuropsychopharmacology, limitatamente agli antidepressivi, denuncia un 40% di incremento in Europa fra il 2005 e il 2012; altri studi confermano questa realtà specificando quanto le percentuali siano sottostimate a causa del ricorso a prescrizioni private o ad acquisti via internet. Queste molecole assunte nell’età evolutiva producono effetti collaterali molto gravi e ledono gli ormoni della crescita; le conseguenze delle cure ormonali supplettive sono ancora poco documentate dalla letteratura medica.
Mentre la verità sui risvolti medicalizzanti ha ancora lati oscuri, raccogliamo le menzogne dei responsabili dei protocolli italiani sull’ADHD quando affermano: “Gli effetti indesiderati sono modesti e facilmente gestibili”, discostandosi nettamente dai giudizi della Food & Drug Administration quando elenca: crisi maniacali e depressive con tentativi di suicidio, gravi affezioni cardiache, diabete, ictus e morte improvvisa.
Le circolari del Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca (Miur) identificano le istituzioni scolastiche come “comunità educanti”, ma se così fosse sarebbero il luogo privilegiato dell’incontro, del dialogo, della scoperta, della creatività dove l’interscambio di dubbi, riflessioni e progettualità non riproponga la disparità verticistica fra chi sa e chi non sa. Luoghi dove educare (nell’etimologia del tirar fuori, stimolare) ed esperire siano una modalità consolidata che, in prospettiva, possa fungere da prevenzione alle difficoltà senza tradurle in “disturbi comportamentali”.
Il dialogo è l’ennesima menzogna se manca la capacità di ascolto e di attenzione ai bisogni. Codificare i conflitti attraverso le categorie cliniche del patologico è il fallimento della relazione: relazione significa fenomenologia, la scommessa meno scontata, quella che parla il linguaggio delle esperienze e del relativismo per antonomasia, l’unica a restituire partecipazione attiva.
Nella scuola pubblica la carenza di spazi di riflessione procura disorientamento: carichi di lavoro elevati, burocrazia, difficoltà a cogliere le priorità nel sovrapporsi di impegni che tolgono energie da dedicare all’insegnamento e alla relazione. Il CESP (Centro studi per la scuola pubblica), cogliendo questa esigenza, organizza corsi di aggiornamento per offrire riflessioni culturali, parallelamente all’attività sindacale COBAS. Fra gli argomenti quello della medicalizzazione degli studenti: in attivo una quindicina di seminari/laboratori molto partecipati, occasioni di interscambio per approfondimenti importanti anche per chi interviene nelle relazioni introduttive.
La difesa dell’autodeterminazione nella relazione educativa e la responsabilità nei confronti delle nuove generazioni ci spinge a svelare le gabbie di menzogna o i “regimi di verità” per dirlo con M. Foucault; rincorrere stereotipi è una deriva disumanizzante. La memoria ci ha tradito a tal punto da voler, a nostra volta, tradire l’infanzia?

Chiara Gazzola

Nella consapevolezza di aver sintetizzato alcuni passaggi, rimando a: C. Gazzola, S. Ortu, Divieto d’infanzia. Psichiatria, controllo, profitto, BFS, Pisa 2018, pp. 94, € 10,00, seconda edizione aggiornata; note e bibliografia in: http://www.bfs.it/edizioni/files/prefazioni/233.pdf