articolo su LAVORO e SALUTE – N°12 dicembre 2024 – “STORIA di SALUTE MENTALE NEGATA Stella Maris: l’orrore dietro l’eccellenza. Genealogia di un processo in corso”
STORIA di SALUTE MENTALE NEGATA Stella Maris: l’orrore dietro l’eccellenza. Genealogia di un processo in corso
di Sondra Cerrai mamma di Mattia Giordani
In provincia di Pisa si trova un centro che si occupa di malattie psichiatriche e neurologiche infantili, un centro che è definito d’eccellenza, un centro strettamente legato all’Università di Pisa, un centro che accoglie bambini e adolescenti problematici da tutta Italia. Questa struttura è una realtà (gestita dalla) Fondazione Stella Maris che dipende direttamente dalla diocesi di San Miniato per cui è fortissima è l’impronta cattolica che ne caratterizza i principi guida e dovrebbe caratterizzare l’impronta etica degli interventi che qui si realizzano. Il cuore pulsante di questa struttura della Fondazione si trova al Calambrone al confine con Livorno, di fronte al mare. La struttura è attiva dal 1958 ed ha saputo creare una strettissima fusione di interessi con l’Università degli studi di Pisa e con la ASL fino ad agire in un regime di quasi monopolio per il trattamento dei disturbi psichiatrici e neurologici. Si tratta di un istituto enorme, sia per estensione spaziale degli ambienti in continuo ampliamento (e di quelli dismessi che costituiscono comunque un cospicuo patrimonio immobiliare), sia per quanto riguarda l’elenco delle patologie e dei disturbi di cui si occupa. Sotto questo aspetto la Stella Maris rappresenta un punto di riferimento per tantissime persone (1) . Di fatto la struttura di cui nel presente articolo parlo (e che è gestita dalla Fondazione Stella Maris) è un’istituzione privata convenzionata e finanziata con milioni di euro l’anno dalla Regione Toscana lavorando in regime di quasi monopolio. La Regione, nonostante la gravità degli abusi certificati dalle videoriprese, non ha ritenuto opportuno costituirsi come parte civile al processo, suscitando riprovazione e sgomento tra i genitori delle vittime dei maltrattamenti. Esistono due succursali di questo centro: una a San Miniato, dedicata soprattutto alle giovani donne e adolescenti e l’altra a Marina di Pisa (ex Montalto di Fauglia) più propriamente dedicata ai ragazzi e ai giovani uomini. E’ qui, a Montalto di Fauglia, che parte la storia che ha aperto una voragine sull’essenza vera della Stella Maris e sul concetto stesso di strutture “protette”. A Montalto di Fauglia, vera casa degli orrori, si sono consumati durante gli anni abusi e coercizioni a danno dei più deboli e quello che la telecamera ha ripreso in un’unica stanza, il refettorio, e in un arco ristretto di tempo, tre mesi di riprese nell’estate del 2016, può essere considerato paradigmatico di ciò che probabilmente accadeva nel resto della struttura e in un arco temporale ben più vasto.
Le indagini sui maltrattamenti – condotte dalla PM Paola Rizzo – erano iniziate quando i carabinieri avevano segnalato alla Procura di Pisa di aver ricevuto due lettere anonime che denunciavano atti di violenza di alcuni operatori della struttura di Montalto nei confronti di vari pazienti. Nello stesso periodo era arrivata anche una denuncia, non anonima, da parte dei genitori di un paziente affetto da autismo, corredata da un referto medico: sul corpo del figlio da circa un anno comparivano spesso dei lividi sospetti ma gli educatori e i medici della struttura ne attribuivano la responsabilità alla gravità delle patologie dei ragazzi e al fatto che si “picchiassero” tra loro o al servizio di trasporto da e verso l’istituto. A seguito di queste denunce la PM decise di installare le telecamere nascoste nei due refettori di Montalto (purtroppo in un refettorio la telecamera non ha mai funzionato) e di procedere alle intercettazioni anonime delle telefonate tra i vertici degli operatori della Fondazione. In seguito ad un’approfondita indagine e alla visione di ore di videoregistrazioni e di intercettazioni telefoniche, il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Pisa, Elsa Iadaresta, aveva deciso, come primo atto, l’allontanamento dal servizio di quattro operatori sanitari della Fondazione. Grazie al lavoro certosino dei carabinieri e alle minuziose indicazioni della dr.ssa Paola Rizzo emersero successivamente altri nomi e la rilevanza del numero degli operatori coinvolti rese chiaro sin dall’inizio che non si trattava di episodi isolati, perpetrati da singoli individui, ma di un vero e proprio sistema in qualche modo accettato o misconosciuto dalla prestigiosa dirigenza della Stella Maris. Già dopo quattro giorni di ripresa, come ha scritto il Giudice dell’Udienza Preliminare Giulio Cesare Cipolletta (2) nella sentenza-ordinanza del 2019, i video documentavano “atti di violenza fisica come schiaffi e strattoni oppure minacce ed ingiurie, poste in essere in maniera del tutto gratuita e senza riferimento a pregresse condizioni dei pazienti”. Le telecamere riprendono quello che accade nella mensa per circa tre mesi. “Oltre novanta giorni durante i quali solo in nove di essi non si è assistito ad episodi di rilievo penale” si legge ancora nella sentenza del giudice Cipolletta. Per il giudice questo attestava “una generalizzata e quotidiana prassi violenta in danno di soggetti deboli; prassi che non è mai o quasi mai stata interrotta neppure dagli altri operatori che non si conformavano alle violenze esercitate”. Per Cipolletta si trattava di “prassi che i responsabili delle strutture non hanno saputo o voluto modificare, omettendo di porre in essere quei poteri ad essi conferiti espressamente”(3).
Le indagini della Procura non si limitarono ad indagare sui casi del 2016; gli inquirenti individuarono altri episodi che sarebbero avvenuti negli anni precedenti e mai segnalati all’autorità giudiziaria. Già nel 2002, ricostruisce il giudice, un operatore che lavorava a Montalto avrebbe compiuto atti di violenza verso un ospite. Lo stesso operatore nel 2003 sarebbe stato responsabile del reato di sequestro di persona “per aver legato senza motivo un paziente”. All’epoca l’unico provvedimento preso nei suoi confronti fu quello di trasferirlo per tre mesi a prendersi cura di piante e fiori in un’altra struttura della Fondazione. Oggi è tra gli imputati. Così come un altro operatore che avrebbe commesso gravi aggressioni nei confronti di 4 pazienti rispettivamente nel 2008, 2009, 2013 e 2014. Non era stato licenziato ma “dimissionato” e comunque, di nuovo, mai portato all’attenzione della magistratura. La stampa cittadina ha definito questo processo “il più grande processo per maltrattamenti su disabili in Italia”. Gli imputati erano diciassette: accusati di aver maltrattato ventitré pazienti affetti da autismo e altre gravi neuropatie. Due imputati sono usciti di scena dopo la sentenza di Cipolletta: un operatore che ha patteggiato la pena e il Direttore generale che, dopo il rito abbreviato, in cui era stato condannato a due anni e otto mesi di reclusione è stato poi assolto nel processo d’Appello(4). Sul banco degli imputati vi sono adesso quindici operatori tra cui le due dottoresse, Paola Salvadori e Patrizia Masoni oltre al direttore sanitario Giuseppe De Vito.
La Regione Toscana erogatrice di migliaia di euro alla Stella Maris (e presumibilmente poco accorta nel mettere in atto sistemi di controllo efficaci) ha deciso di non costituirsi parte civile e la allora assessora Stefania Saccardi si è negata anche alle telecamere della RAI venendo meno all’intervista, sfuggendo alle telecamere e rifiutando di motivare la sua scelta, cosa che un amministratore regionale (che gestisce molti fondi pubblici riversandoli ad una fondazione privata) dovrebbe sempre essere obbligato a fare(5) . Ci sono, tuttavia, trentaquattro parti civili davanti al giudice Susanna Messina che ha dato il via al processo ordinario la cui prima udienza si è tenuta il 10 febbraio 2020. Oltre ai genitori e ai familiari ci sono Telefono Viola, Anmic (Associazione nazionale mutilati e invalidi civili) e Agosm, ovvero l’associazione dei genitori degli ospiti di Montalto. Il processo per maltrattamenti va dunque avanti lentamente anche per il numero elevatissimo di testimoni da ascoltare: nel periodo della pandemia è stato ospitato nel Palazzo dei Congressi di Pisa, unico caso nella storia della giustizia pisana. Al processo è emersa la gratuità delle violenze (comunque mai prassi legittime dentro percorsi di cura), compiute quando i ragazzi stavano mangiando ed erano del tutto inoffensivi. Le videoregistrazioni (a cui si sommano le intercettazioni telefoniche) testimoniano oltre 280 episodi di violenza in meno di 4 mesi; violenza non episodica ma strutturale.
A fianco di questo processo se ne sta svolgendo un altro che riguarda la morte di Mattia, mio figlio, un giovane di 26 anni, prima vittima come gli altri dei maltrattamenti sotto inchiesta e poi morto in circostanze sospette ancora al vaglio della magistratura. Mattia è morto nel marzo del 2018 per soffocamento, dovuto probabilmente al prolungato ed eccessivo uso di psicofarmaci. I continui cambi di terapia avevano comportato disfunzionalità e rischi al momento dei pasti, rischi di cui noi non eravamo stati informati e che sono stati criminalmente (o per prassi in uso di non dettagliare efficacia e rischi delle terapie farmacologiche, di cui si chiede usualmente fiducia cieca da parte di pazienti e loro familiari) sottovalutati e sottaciuti dai medici e dagli operatori che lavoravano a Montalto(6) . Per questa vicenda vi è un altro procedimento penale, il processo in primo grado si è chiuso con nessuna responsabilità da parte dei medici e della struttura. È iniziato il processo d’Appello presso il Tribunale di Firenze, rinviato a novembre 2025. La storia che si intende approfondire qui, tuttavia, è quella della struttura in sé del modo in cui ha operato e molto probabilmente continua ad operare, delle dinamiche che regolano istituti, dagli intrecci che vi sono con gli enti pubblici. La vicenda dei maltrattamenti mostra ogni volta uno spaccato aberrante di quella che risulta essere una istituzione totale a tutti gli effetti.
Montalto come “Istituzione totale”
Quando i ragazzi autistici gravi, o giovani affetti da altre psicopatologie difficili da gestire in famiglia, non trovano aiuto sul territorio in piccole strutture (come le aveva pensate tra gli altri già Franco Basaglia) si aprono le porte di queste grandi strutture, ultima spiaggia per genitori abbandonati dalle istituzioni. Genitori che inutilmente hanno chiesto aiuto per tenere i propri figli in famiglia e che hanno trovato tutte le porte chiuse poiché per chi gestisce denaro pubblico è molto più efficace utilizzare quel denaro in grandi strutture piuttosto che disseminarlo sul territorio aiutando i genitori a gestire i propri figli a casa. Terminato il ciclo scolastico, tentato inutilmente il percorso dei centri per disabili (poco attrezzati per le patologie mentali gravi) si apre spesso la strada degli istituti, dove in un calderone caleidoscopico delle diverse patologie si curano tutti i ragazzi con lo stesso metodo: gli psicofarmaci, anche a fronte di un vistoso calo dei fondi e della scelta di (dis)investimento per la psicoterapia e per le attività riabilitative. Montalto, struttura definita d’eccellenza, che riportava nei suoi verbali e nelle sue procedure burocratiche una situazione di perfetta funzionalità e di attivazione di tutte le accortezze utili ad aiutare questi ragazzi, in realtà, alla prova dei fatti processuali, ha dimostrato l’abissale differenza tra il dire e il fare, il macroscopico divario tra ciò che si scriveva di fare e ciò che effettivamente veniva fatto. A Montalto non hanno funzionato i sistemi di rilevazione del rischio clinico, la formazione era perfetta sulla carta ma quasi inesistente nella realtà, le assunzioni erano state fatte in modo poco ortodosso andando ad assumere spesso persone prive di qualifiche e totalmente inadatte a svolgere un ruolo di supporto a ragazzi così problematici. Inoltre la struttura aveva introiettato dinamiche da “istituzione totale”, gli operatori si coprivano l’un l’altro e alcuni godevano nel dileggiare i ragazzi (come evidenziato dalle riprese video). Anche chi non compiva azioni censurabili (perché impiegato nello smistare i pasti o nel distribuire le medicine) non era assolutamente turbato dalle scene di violenza che si svolgevano di fronte a lui.
Nella Carta dei servizi del presidio di Montalto di Fauglia, si afferma che il modello adottato “mette prima di tutto al centro il paziente come persona, nella sua individualità, nei suoi bisogni relazionali e personali […]. La nostra filosofia di intervento è ‘prenderci cura’ oltre che curare […]. La nostra organizzazione è centrata sul modello del piccolo gruppo di pazienti condotto da educatori professionali e da assistenti con funzioni educative, che fungono da ‘io’ ausiliario o ‘compagni adulti’ dei pazienti, che li supportano concretamente e psicologicamente in ogni atto della vita quotidiana. […] ogni ragazzo […] è visto come portatore di affetti, bisogni emotivi, aspirazioni, competenze” (7). Ma le telecamere installate dai carabinieri hanno messo in evidenza una realtà assai diversa: ciò che avveniva nella mensa di Montalto era l’opposto della filosofia del mettere al centro i bisogni del paziente: è emerso l’abuso e la tracotanza che regolavano logiche di dominio e controllo, dinamiche di caporalato anche tra gli stessi operatori, per le quali chi voleva dissociarsi o denunciare veniva messo all’angolo in modo duro, isolato, dileggiato, allontanato. Nel branco non erano ammesse voci dissonanti. Logiche che sono apparse in modo chiarissimo durante il lungo svolgimento del processo ancora in itinere. Montalto era diventata a tutti gli effetti un’istituzione totale.
Per inquadrare il contesto più generale in cui si sono svolti gli eventi, una chiave di lettura è fornita dalla relazione tecnica, agli atti del processo, redatta da Alfredo Verde, ordinario di Criminologia dell’Università di Genova, che sottolinea “una lunga tradizione di abuso e violenza da parte degli operatori, radicata negli anni, e in parte tollerata, in parte ignorata della direzione delle strutture”(8). E ancora: “Una violenza così evidente richiama la possibilità di ipotizzare che altre violenze si siano verificate in contesti meno pubblici.” La relazione tecnica afferma inoltre che “il comportamento degli operatori è apparso tipico delle istituzioni totali in cui non solo gli ospiti vengono puniti, ma la punizione viene anche irrogata in una situazione di estrema visibilità (come per esempio il refettorio), in cui gli ospiti assistono silenziosi e acquiescenti al trattamento subito dai compagni: una sorta di teatro”. Afferma ancora il professor Verde: “Il pensiero istituzionale presuppone, implica e giustifica la violenza, che può essere manifesta o anche solo accennata, assumendo quindi anche una funzione simbolica”. E aggiunge “Leggendo gli atti del presente procedimento abbiamo rinvenuto sicuramente la menzione di una lunga tradizione di abuso e violenza da parte degli operatori, radicata negli anni, e in parte tollerata, in parte ignorata dalla direzione della struttura…In queste situazioni si sviluppano degenerazioni in cui la violenza e la sopraffazione divengono strumenti usati ogni giorno, e l’istituzione perde le sue caratteristiche terapeutiche per divenire un luogo meramente coercitivo e afflittivo. Il comportamento degli operatori è apparso tipico delle istituzioni totali”.
I “tappeti contenitivi” come se fosse una cosa normale
Durante il processo è emerso in varie testimonianze, anche in quelle apicali, in particolare nella deposizione della dr.ssa Patrizia Masoni, direttrice dell’IRM (Istituto di Riabilitazione), nel periodo dei maltrattamenti, che l’uso dei cosiddetti “tappeti contenitivi” per normalizzare le crisi dei ragazzi, era a Montalto assolutamente normale. All’interno dei tappeti i pazienti venivano immobilizzati, contenuti e arrotolati. La dottoressa Masoni ha raccontato in aula che al presidio di Fauglia l’idea del tappeto contenitivo aveva cominciato a prendere piede dopo che un non meglio identificato dottore americano ne aveva consigliato l’uso nel corso di un convegno di studi, esaltandone gli innegabili effetti pratici e il fatto che “questo tipo di pazienti non gradisce il contatto fisico” (sempre secondo le parole della dottoressa, qui citate letteralmente). L’altra tutt’altro che “condivisibile” motivazione a favore del tappeto contenitivo indicata dal medico americano era che il tappeto avrebbe consentito di avere meno problemi con le famiglie in caso di crisi dei pazienti. Ha affermato testualmente la dottoressa Masoni: “il medico ci aveva detto: ma voi in Italia non avete problemi con le assicurazioni quando i vostri pazienti si fanno male o tornano a casa con i lividi? Da noi il tappeto evita molte di queste problematiche…”. E così, negli anni 2008-2009, ascoltando le parole di questo medico e presumibilmente senza accertarsi della loro veridicità e dell’effettiva possibilità di praticare una simile contenzione in Italia, anche le dottoresse della Stella Maris avrebbero cominciato a utilizzarlo nella struttura, anche se solamente nel 2014 la Regione Toscana lo avrebbe inserito tra gli strumenti contenitivi accreditati. Ma al momento ancora non sappiamo se questo accreditamento effettivamente ci sia stato. Nel frattempo nella struttura si faceva di necessità virtù. All’inizio operatori e operatrici – secondo il racconto della dottoressa – si arrangiavano con quel che c’era: a volte portavano i tappeti da casa! Solamente dopo qualche tempo sarebbe stato possibile un investimento ulteriore: la dottoressa ha raccontato in tribunale che, accompagnata da altre operatrici, si sarebbe recata di persona all’Ikea a fare una scorta di tappeti a basso prezzo. Nel corso del processo è emerso un ulteriore elemento di confusione circa il numero degli operatori che avrebbero dovuto usare questi tappeti, nel protocollo interno sembra ne dovessero servire cinque (uno per arto e uno per tenere la testa dei pazienti) ma la realtà era molto più prosaica, data la scarsità degli operatori, tanto che spesso uno o due persone si trovavano a dover gestire questa insana pratica. Lo stesso racconto della dottoressa Masoni ci rivela altri particolari che descrivono una realtà (se possibile) ancora peggiore, completando un quadro allucinante. La dottoressa ha, infatti, sostenuto che in realtà un solo operatore sarebbe bastato per l’utilizzo del tappeto, e proprio per facilitare un intervento di questo tipo avevano pensato di aggiungere al tappeto delle “maniglie”, in modo da prendere come con una rete da pesca la persona recalcitrante per procedere successivamente alla procedura dell’arrotolamento. Al processo è emerso anche che, in mancanza del personale previsto per svolgere la manovra di contenimento tramite tappeto, più volte gli addetti avrebbero impedito un possibile “srotolamento” del malcapitato apponendo una sedia come “fermo” sopra il tappeto arrotolato su cui poi, per completare l’opera, si sarebbero posti a sedere. Cosa che è stata raccontata da altri operatori nel corso del processo.
Il Collettivo Artaud che sulla vicenda dei maltrattamenti ha ingaggiato una vera battaglia a fianco dei genitori e dei ragazzi maltrattati, organizzando un presidio di fronte al tribunale durante ogni udienza e tenendo viva l’attenzione su questi temi con stampa e radio, sta seguendo con particolare attenzione l’uso dei tappeti contenitivi. In un loro contributo sulla stampa si legge(9) “L’uso dei tappeti contenitivi pone a nostro avviso alcune problematiche su due ordini di riflessione. Da una parte il piano giuridico-legale: come è possibile che un crudele quanto rozzo marchingegno di questo tipo possa essere considerato regolare? Non ci risulta che i tappeti siano presidi sanitari accreditati al pari di altri, pur crudeli, annichilenti e ugualmente inaccettabili strumenti di contenzione usati in lungo e in largo nella quasi totalità delle strutture psichiatriche di “accoglienza e cura”, come ad esempio le cinghie. E se anche in qualche modo fossero stati legittimati da qualche protocollo interno, dubitiamo che si possano considerare regolari e accreditati i tappeti portati da casa o comprati all’Ikea. Sotto questo aspetto, giudice e/o avvocati di parte civile forse dovrebbero approfondire la questione per rilevare eventuali ulteriori profili di reato. Ma quello che ci colpisce di più, al di là delle parole accomodanti della dottoressa, è un secondo aspetto della questione, le cui implicazioni vorremmo fossero ben inquadrate. Non si possono arrotolare esseri umani in un tappeto. Le persone non si legano. Mai. Non ci sono ragioni che possano giustificare una violenza del genere: tanto più in una istituzione di (presunta) eccellenza deputata all’accoglienza” e alla “cura”; tanto più verso persone, ragazzi indifesi e bisognosi di altro che di trattamenti disumani e degradanti……La presunta eccellenza della Stella Maris è un grande bluff.A Fauglia non si mettevano in atto cure o trattamenti terapeutici ma violenze e trattamenti degradanti e umilianti ai danni degli ospiti. Al di là di procedure, protocolli e linee guida, che possono offrire un imprimatur giuridico e professionale alla necessità, costi quel che costi, di ridurre all’impotenza una persona, tutte le pratiche di contenzione, tra cui anche i tappeti di contenzione rappresentano, oltre che una inaccettabile violenza, uno dei tanti simboli del fallimento dell’utopia psichiatrica.”
NOTE
1- Collettivo Antipsichiatrico Antonin Artaud, “Strutture psichiatriche e istituzioni totali: la vicenda Stella Maris” in “La terra trema”, https://www.laterratrema.org/2024/03/strutture-psichiatriche-e-istituzioni-totalila- vicenda-stella-maris/feed/
2- che ha emesso la prima sentenza, relativamente a chi aveva chiesto il rito abbreviato (il Direttore generale della Stella Maris) o il patteggiamento (un operatore che ha ammesso la sua colpa) rinviando gli altri a giudizio.
3- Sentenza del GUP Giulio Cesare Cipolletta, Udienza camerale del 14 maggio 2019.
4- La sentenza d’appello che ha assolto il Direttore generale Cutajar, dopo l’iniziale condanna, non nega la veridicità dei maltrattamenti e delle vessazioni operate a Montalto, chiede tuttavia che vengano ricercate le responsabilità in altri soggetti.
5- Maria Elena Scandaliato, “Storia di Mattia il più grande processo per maltrattamenti ai disabili in Italia”, Spotlight, Raiplay, 31 agosto 2023.
https://www.raiplay.it/video/2023/09/Spotlight-Storia-di-Mattia-Il-piu-grande-processo-per-maltrattamentia i – d i s a b i l i – i n – I t a l i a – b 5 3 7 2 d 4 1 – d 1 1 2 – 4 d 8 8 – a f e e –
6545decb78fb.html?wt_mc=2.www.cpy.raiplay_vid_Spotlight.
6- Sulla vicenda rimando al libro da me scritto, Siamo tutti legati, Porto Seguro Editore, Firenze, 2020.
7- IRRCS Stella Maris, “Carta dei servizi del presidio di Montalto di Fauglia”,
8- Alfredo Verde, RELAZIONE DI CONSULENZA TECNICA SULL’IDONEITÀ DELLE CONDOTTE POSTE IN ESSERE DA PARTE DEGLI OPERATORI SANITARI DELLA STRUTTURA STELLA MARIS DI MONTALTO DI FAUGLIA RISPETTO ALLE FINALITÀ TERAPEUTICHE E ALLA TUTELA E GESTIONE DEI SOGGETTI TRATTATI, NEL PERIODO DI CUI AL CAPO DI IMPUTAZIONE (pROC. N. 664/2017 R.G. NOTIZIE DI REATO – N. 142112019 R.G. DIB.) , 12 novembre 2021.
9- Laura Guerra, “Come se fosse una cosa normale- i tappeti contenitivi”, in Mad in Italy. Science, Psychiatry and social Justice, 8 aprile 2024, https://mad-in-italy.com/2024/04/come-se-fosse-una-cosa-normale-i-tappeticontenitivi/
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