Tempo fa abbiamo espresso solidarietà e vicinanza a Giovanna, ferita da parte delle forze dell’ordine in Val di Susa.
Giovanna era stata colpita in pieno volto da uno dei lacrimogeni, sparati dalla polizia ad altezza uomo nei confronti degli attivisti No Tav. Oggi pubblichiamo l’invito, che trovate sotto, a donare un contributo per sostenere le spese sanitarie che deve affrontare.
il Collettivo Antonin Artaud
Collettivo Antipsichiatrico Antonin Artaud-Pisa
antipsichiatriapisa@inventati.org
artaudpisa.noblogs.org 335 7002669
via San Lorenzo 38 Pisa
Ciao,
Dopo l’intervento di aprile e la lunga ripresa che è seguita, Giova è tornata a lavoro e alle attività quotidiane e di lotta.
A ottobre c’è stato il secondo intervento e a novembre un terzo.
Il morale è alto ma la sanità non smette di farci arrabbiare, noi come tante altre persone che vi si rivolgono. Disorganizzazione, sfruttamento selvaggio di chi ci lavora, assenza di tutele per chi ha bisogno di cure, costi esorbitanti perché il SSN non garantisce l’accesso gratuito a tutte le cure.
In seguito all’ultimo intervento è necessaria una riabilitazione della mandibola e dei supporti specifici per la cura, nonché visite e accertamenti oculistici.
Le spese sono altissime, si parla di diverse migliaia di euro. Senza queste cure le operazioni fatte rischiano di non essere utili.
Abbiamo quindi deciso di scrivervi e raccogliere l’invito, che in tant* ci avete fatto, di contribuire alle spese che affrontiamo. Per ora abbiamo deciso di inviare questo messaggio a compagn, *amic* e organizzazioni del nostro territorio in modo da sostenere le spese più imminenti.
Per far ciò abbiamo aperto un conto apposito di cui vi diamo gli estremi per il bonifico.
Vi ringraziamo anticipatamente per lo sforzo e il sostegno,
Un grande abbraccio
Compagne e compagni di Pisa
Iban: IT38K3608105138254838454853
Giovanna Saraceno
Abbiamo incontrato al Cirkoloco alcuni membri del collettivo antipsichiatrico di Pisa “Antonin Artaud”. Eravamo curiosi di conoscere le loro idee ed iniziative perché dell’antipsichiatria se ne parla poco, e forse anche a sproposito. Loro sono stati molto disponibili e l’incontro è stato interessante e proficuo. Abbiamo iniziato presentando al collettivo la nostra associazione.
Il nostro consigliere Alessandro ha posto le prime domande: “Cos’è l’Antipsichiatria? Cosa contesta alla psichiatria tradizionale? Che cosa propone in alternativa?“.
Ha risposto Alberto:
“Ci chiamiamo collettivo antipsichiatrico perché riteniamo la psichiatria una disciplina medica particolarmente perniciosa e mortificante. È l’unica disciplina medica che obbliga alla cura, in tutte le altre si può scegliere il tipo di cura o non farla. Questo fa sì che gli abusi siano dietro l’angolo. Se andiamo a vedere la storia c’è da mettersi le mani sui capelli e questa situazione non sta cambiando. Il connubio fra aziende farmaceutiche e il controllo sociale tramite la psichiatria causano l’isolamento e la discriminazione di molte persone.
Noi cerchiamo di dare aiuto a chi subisce abusi. Diamo appoggio a chi cerca di uscire dalla psichiatria, diffondiamo una cultura diversa perché della psichiatria si può fare a meno. Non è una questione biologica come vogliono farci credere. Il disagio esiste, anzi è sempre più diffuso. Nessuno psichiatra può esibire un esame, come ad esempio una radiografia, per dimostrare una diagnosi. C’è stato un periodo in cui venivano fatti cadere i muri dei manicomi, ma ormai il manicomio si è diffuso e lo vediamo proprio nel nostro operato. Abbiamo un telefono di ascolto ed anche uno sportello. L’ascolto delle persone, senza pregiudizio, aiuta già tantissimo chi è vittima dello stigma psichiatrico. Stigma che nel contesto attuale con la pandemia rischia di ingrandirsi e rafforzarsi, infatti aver vissuto un periodo senza contatti sociali dovuto alla paura del contagio, lo stress da confinamento e la crisi economica, che sta colpendo ampi strati sociali, ha causato un incremento dei disagi psichici. La difficoltà maggiore è tirare fuori le persone dall’obbligo della cura perché spesso dopo un TSO non ti lasciano in pace. Chi finisce nella rete non riesce più ad uscirne. Noi cerchiamo dei mezzi legali per aiutarle, se è la loro volontà. Non siamo contro gli psicofarmaci a prescindere, siamo per la libertà di scelta delle sostanze da assumere. Gli psicofarmaci, oltre ad agire solo sui sintomi e non sulle cause della sofferenza della persona, se presi per lunghi periodi alterano il metabolismo e le percezioni, rallentano i percorsi cognitivi ed ideativi contrastando la possibilità di fare scelte autonome, generano fenomeni di dipendenza ed assuefazione del tutto pari, se non superiori, a quelli delle sostanze illegali classificate come droghe pesanti. Per un periodo ha collaborato con noi una psichiatra che oltre all’ascolto dava importanza all’alimentazione per aiutare le persone in difficoltà. Sono fondamentali anche le relazioni sociali. I farmaci possono aiutare in alcuni momenti, non lo neghiamo, ma a lungo andare ci sono effetti collaterali irreversibili. Sappiamo bene che le persone trattate con psicofarmaci aumentano la probabilità di trasformare un episodio di sofferenza in una patologia cronica. La maggior parte di coloro che ricevano un trattamento farmacologico pesante va incontro a nuovi e più gravi sintomi psichiatrici, a patologie somatiche e a una compromissione cognitiva, fino ad arrivare a possibili casi di suicidio.
La malattia mentale non è il diabete. La maggior parte di queste malattie nascono da conflitti, soprattutto familiari. La famiglia crea un ambiente ristretto dove spesso avvengono conflitti che hanno queste conseguenze. Ci siamo a volte chiesti se diventare associazione, ma noi siamo per deistituzionalizzare la psichiatria. A volte per liberare chi si trova sotto le pressioni e gli obblighi esercitati dagli psichiatri del CIM (Centri Igiene Mentale) l’unico modo è quello di cercare medici psichiatri che utilizzano altri approcci terapeutici non coercitivi disposti a prendere in carico la persona. Uno concreto percorso di superamento delle pratiche psichiatriche passa necessariamente da uno sviluppo di una cultura non etichettante, senza pregiudizi e non segregazionista, largamente diffusa, capace di praticare principi di libertà, di solidarietà e di valorizzazione delle differenze umane contrapposti ai metodi repressivi e omologanti della psichiatria.
“Quindi secondo voi non esiste una psichiatria sana?”
“Esistono psichiatri, magari che sbagliano, ma che sono comunque in buona fede. A volte operano per il bene delle persone, perché hanno una visione più sociale però la psichiatria come istituzione è al servizio del potere. Ancora oggi l’impostazione è questa, sia per come viene insegnata nelle scuole, sia per come viene messa in pratica. Fanno ancora gli elettroshock, legano ancora ai letti.” A questo punto ci regalano un libro scritto da loro, basato sulle esperienze di alcune persone che hanno ricevuto l’elettroshock. Daniele, un altro membro del collettivo, ci dice che il metodo attuale non è molto diverso dal 1938, nel senso che adesso viene fatta l’anestesia, ma la corrente passa lo stesso attraverso il corpo, con tutte le sue conseguenze. In Toscana, Marche e Piemonte si è tentato di limitare questo trattamento, ma la risposta è stata che per l’articolo 32 della Costituzione è vietato impedirlo.
Non viene generalmente usato nemmeno il consenso informato. Lo scopo dell’elettroshock è causare un attacco epilettico, per far stare meglio i pazienti. C’era anche la logica di far perdere la memoria, sempre con l’idea di migliorare le condizioni dei pazienti.
Giulia, altra consigliera della nostra associazione, prende la parola:
“Alla conferenza nazionale sulla Salute Mentale, dove sono intervenuti una trentina di psichiatri, sembrava di sentire voi. In molti hanno criticato il modello attuale di psichiatria, la responsabile del CSM di Tor Bella Monaca ha detto che qui il problema è la miseria. Che molte persone hanno chiesto l’invalidità perché è l’unico modo per campare. Gli abusi, il modello dell’ambulatorio, il ricovero, il TSO… però se ci fosse un modo alternativo? Se anche chi ci lavora è contrario ad andare avanti così, c’è un modo di aiutare diverso?“
Daniele risponde: “Chi decide se io sto male? Un conto è se lo dico io, e decido insieme a chi mi aiuta come stare meglio. Un conto è se qualcuno decide per me quando sto male e come devo fare, senza interpellarmi.”
Alberto conclude: “Se si potesse dire no alla cura, non ci sarebbe più un collettivo antipsichiatrico. Basterebbe questo.”
Vi informiamo che lo SPORTELLO D’ASCOLTO ANTIPSICHIATRICO previsto per martedì 21 dicembre non sarà effettuato. Lo SPORTELLO si terrà regolarmente martedì 28 dicembre allo stesso orario , dalle ore 15:30 alle 18:30 presso la nostra sede in via San Lorenzo 38 a Pisa.
Collettivo Antipsichiatrico Antonin Artaud
via San Lorenzo 38, 56100 Pisa
antipsichiatriapisa@inventati.org
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Condividiamo e diffondiamo il volantino scritto dal collettivo antipsichiatrico SenzaNumero riguardo la morte per contenzione meccanica di Abdel Latif avvenuta nel reparto psichiatrico dell’Ospedale San Camillo di Roma.
BASTA MORTE NEI REPARTI PSICHIATRICI!!
ABOLIAMO LA CONTENZIONE!!
Abdel Latif, ragazzo tunisino di 26 anni. Era arrivato in Italia tramite una delle tante navi che cercano di approdare, fortunate per non essere state respinte. L’ “accoglienza” che gli è stata riservata, a lui come a tanti/e altre, è stata quella di essere rinchiuso in un CPR, un centro di detenzione per migranti nel quale vieni portato per un reato terribile: non avere il documento “giusto”.
Abdel rimane nel CPR svariati giorni; a un certo punto, da quanto appreso dai giornali, gli viene diagnosticato un disturbo psichiatrico (di cui non aveva mai avuto segni in Tunisia) e gli vengono dati dei farmaci. Dopo pochi giorni la “cura” pare vada rafforzata e Abdel viene trasferito al reparto di psichiatria prima del Grassi di Ostia, poi al San Camillo.
Qui viene tenuto legato al letto per 3 giorni, dal 26 al 28 novembre giorno in cui muore.
Le autorità mediche parlano di arresto cardiaco, non facendo alcun riferimento né ai farmaci somministrati né al fatto che fosse stato contenuto per almeno 72 ore.
Questa storia ci riporta a due verità purtroppo già note: nei reparti psichiatrici italiani si continua a morire di contenzione meccanica, sia in regime di degenza che durante le procedure di TSO. IL CPR è un luogo di detenzione e come tale si fonda sulla violenza e sulla sopraffazione.
La morte di Abdel non è una storia isolata, molti/e hanno subito la sua stessa sorte. Citiamo solo gli ultimi di cui siamo a conoscenza: Guglielmo Antonio Grassi morto nel reparto psichiatrico dell’ospedale di Livorno; Elena Casetto, arsa viva perché legata… sempre in un reparto psichiatrico.
Ma la l’elenco sarebbe lungo nonostante di molte persone non si conoscano neanche i nomi.
Contenzione meccanica e farmacologica sono pratiche diffuse anche nei CPR, nelle carceri, nelle strutture che ospitano persone anziane e/o non autosufficienti, negli ospedali. In nessun caso la carenza di personale può giustificare il ricorso a pratiche coercitive. La logica dei “motivi di sicurezza”, dello “stato di necessità” o delle “persone aggressive”, a cui sovente si fa appello nei reparti, deve essere respinta poiché fondata sul pregiudizio ancora diffuso della potenziale pericolosità della “pazzia”. Molti ritengono, per atteggiamento culturale o per formazione, che sia giustificabile sottoporre persone diagnosticate come “malate mentali” a mezzi coercitivi, che sia nell’ordine delle cose e corrisponda al loro stesso interesse (!), rimuovendo dal loro orizzonte il valore imprescindibile della libertà della persona. Tanto più rilevante quanto più attinente alle libertà minime, elementari e naturali, come quella di movimento.
Oltre al ricorso alla contenzione meccanica e farmacologica, continua ancora oggi a prevalere nei servizi psichiatrici un atteggiamento custodialistico e l’impiego sistematico di pratiche e dispositivi manicomiali: obbligo di cura, porte chiuse, grate alle finestre, sequestro dei beni personali, limitazione e controllo delle telefonate e di altre relazioni e abitudini. Lo stato di pandemia ha inoltre rafforzato l’isolamento e la distanza tra chi è tenuto rinchiuso/a e chi non lo è, accrescendo le violenze perpetrate all’interno di quelle mura (siano esse del carcere, del CPR, dei reparti di psichiatria).
Ribadiamo la necessità di eliminare, senza alcuna eccezione, la contenzione meccanica nelle istituzioni sanitarie, assistenziali e penitenziarie italiane.
Continueremo a lottare con forza contro ogni dispositivo manicomiale e coercitivo (obbligo di cura, trattamento sanitario obbligatorio, uso dell’elettroshock, contenzione meccanica, farmacologica e ambientale, ecc.) e per il superamento e l’abolizione di ogni pratica lesiva della libertà personale.
Continueremo a lottare contro i respingimenti, i rimpatri, le espulsioni, le frontiere, per la libera circolazione di tutte le persone.
PER UN MONDO SENZA FRONTIERE, SENZA PSICHIATRIA, SENZA COERCIZIONI
senzanumero.noblogs.org/
hurriya.noblogs.org/
pubblichiamo questo articolo da Hurriya:
https://hurriya.noblogs.org/post/2021/12/06/contenzioni-ed-espulsioni-ingranaggi-nella-societa-dellesclusione/
Contenzioni ed espulsioni: ingranaggi nella società dell’esclusione
Mentre mettevamo insieme i pezzi per questo articolo la realtà ha superato le atrocità che ci apprestavamo a raccontare: Abdel Latif, un giovane proveniente dalla Tunisia, viene ucciso il 28 novembre, dopo tre giorni in stato di contenzione meccanica nell’ospedale San Camillo di Roma.
Il razzismo di stato è tentacolare e Abdel Latif dell’Italia ha visto la segregazione in un hotspot a Lampedusa, la prigionia su una nave quarantena, la reclusione nel Centro di espulsione di Ponte Galeria a Roma, la contenzione nel reparto psichiatrico del San Camillo.
Due delle prigionie che hanno portato alla morte di Abdel Latif hanno come sfondo il sistema sanitario italiano, per il resto come garanzia ci sono gli attori dell’accoglienza umanitaria.
Le recenti mobilitazioni contro la contenzione psichiatrica ci hanno suggerito alcune riflessioni e abbiamo cercato informazioni riguardo il dibattito sulla contenzione meccanica, pratica che lo Stato dichiara di voler abolire con un percorso triennale che dovrebbe terminare nel 2023.
È da notare come negli stessi carteggi istituzionali le valutazioni partano da dati e note risalenti al 2001 e come dalle stesse analisi si arrivi a “raccomandazioni” e “suggerimenti” che, da allora e dopo 20 anni, non hanno avuto alcun riscontro pratico: si continua a morire nella violenza.
Ogni documento istituzionale è costretto a prendere in considerazione la lesione delle libertà individuali, la tortura, l’inefficacia in termini di miglioramento delle condizioni di salute e il peggioramento della persona sottoposta a contenzione meccanica fino a determinarne la morte. Protocolli che partono dall’assunto che “non è un atto sanitario, né un atto medico, non avendo nessuna finalità terapeutica, diagnostica o lenitiva del dolore”, confermano “la natura violenta della cura psichiatrica” e l’aumento dello stigma sociale per chi ha delle difficoltà ma al giorno d’oggi non esiste alcun monitoraggio di queste pratiche di tortura nelle strutture psichiatriche (figuriamoci nelle carceri, nelle RSA o nei CPR).
Già in passato veniva suggerito, non imposto, un registro per tenere nota delle ragioni, delle modalità e delle tempistiche dietro ogni contenzione.
Non serve grande immaginazione per credere che il tutto avvenga con la violenza fisica, la sedazione e l’abbandono perché i sostenitori della contenzione meccanica ritengono che il pericolo per l’incolumità degli operatori sanitari e la mancanza di personale siano delle buone ragioni per torturare e ammazzare le persone.
Convinzioni che le istituzioni non hanno neanche modo di paragonare ad altre strutture sanitarie che non utilizzano la contenzione meccanica perché la discrezionalità è immensa e senza controllo.
Nelle linee guida che lo Stato dichiara di voler adottare per superare la contenzione meccanica, oltre alla formazione del personale, c’è la trasparenza e l’accessibilità agli affetti e ai famigliari delle persone trattenute nelle strutture psichiatriche poiché, parte della contenzione, consiste nella reclusione.
Ora, guardando all’ultima persona uccisa dalla contenzione, probabilmente questa vicinanza affettiva sarebbe stata comunque impossibile data la blindatura delle frontiere.
Che il controllo psichiatrico – attraverso la somministrazione coatta, volontaria e involontaria di psicofarmaci – riguardi la vita delle persone detenute nei Centri di espulsione non siamo di certo i primi a saperlo. [Vedi anche 1 oppure 2]
Le persone recluse hanno sempre denunciato la presenza di psicofarmaci nel cibo e gli stessi farmaci come unica “cura” proposta oltre la tachipirina: un opuscolo recentemente pubblicato da nocprtorino.noblogs.org ricapitola la gestione sanitaria attuale nei CPR e fa un chiaro riferimento al controllo psichiatrico.
In passato abbiamo anche raccontato di iniezioni forzate di psicofarmaci nel CPR di Ponte Galeria e una querela da parte della cooperativa Auxilium ha comportato il sequestro preventivo della pagina che riportava l’articolo: ma quali altri aspetti del controllo psichiatrico riguardano le violenze a cui vengono sottoposte le persone immigrate?
Oltre ai sedativi, la contenzione meccanica è utilizzata nelle procedure di espulsione in molti paesi europei e non.
Fascette di plastica, scotch per legare mani, piedi e chiudere la bocca, caschi, cinghie, sedie con legacci… un inventario agghiacciante che ha portato alla morte di diverse persone, alcune conosciute per le proteste avvenute in seguito come Semira Adamu – ammazzata con un cuscino in faccia su un volo AirFrance mentre veniva deportata dal Belgio in Nigeria – e Jimmy Mubenga – soffocato su un volo di espulsione UK diretto in Angola.
Conclusioni
Le mobilitazioni contro la contenzione meccanica descrivono chiaramente la tendenza riformatrice a nascondere la violenza psichiatrica e il pericolo della sostituzione con una maggiore contenzione farmacologica in un paese convinto che l’elettroshock e i manicomi appartengano al passato.
Mentre la delegazione del Garante entrata a Ponte Galeria si dice intenzionata a fare chiarezza sulle cause di morte di Abdel Latif e si domanda se la contenzione porti alla morte, noi crediamo che la chiarezza ci sia già.
Tutti muoiono per “arresto cardiaco” ma lo stigma e la criminalizzazione spingono all’isolamento e nell’assenza di relazioni si è sottoposti a qualsiasi trattamento.
Sappiamo, dalle voci e dai racconti delle persone coinvolte, che sono gli stessi meccanismi di controllo delle frontiere e poi gli stessi luoghi istituzionali di segregazione e isolamento (navi, hotspot, centri di accoglienza, Cpr, reparti psichiatrici) che creano le condizioni di una forte sofferenza psichica. Creano una immane sofferenza lo stress di non riuscire a partire per migliorare la propria vita, il dover reperire migliaia di euro per pagarsi un viaggio, con la responsabilità di non deludere familiari e amici e la speranza di inviare presto soldi a casa, la paura durante una traversata dove si rischia la vita e si vedono morire compagnx, le torture subite nei lager, e all’arrivo in Italia, quando si pensava di avercela fatta, altre procedure rese ancora più incomprensibili perché in una lingua diversa, altre galere e violenze, nell’isolamento più assoluto, come nei CPR dove non è possibile nemmeno sentire telefonicamente la voce dei propri cari.
I tentativi di protesta contro questo sistema disumano spesso sono repressi ricorrendo appunto a motivazioni sanitarie, etichettando chi reclama libertà come un folle da sottoporre a trattamento sanitario obbligatorio e contenzione.
Davanti all’ennesima uccisione non deve cadere il silenzio.
pubblichiamo il volantino e una lettera diffusi dagli amici e dai compagni di Matteo Tenni alla fiaccolata che si è tenuta venerdì 26 novembre scorso per ricordare Matteo.
una luce per Matteo
Matteo uno di Noi
Sotto il link per ascoltare l’ intervista a radio BlackOut sulla situazione del reparto psichiatrico Sestante nel carcere di Torino.
https://radioblackout.org/2021/11/il-sestante-carcere-e-manicomio/
La recente denuncia dell’associazione Antigone sulle condizioni inumane di detenzione al Sestante, il repartino psichiatrico del carcere delle Vallette, ha riaperto la questione dei manicomi criminali, poi ospedali psichiatrici giudiziari, chiusi per far posto alle REMS – residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza. Formalmente, pur essendo strutture chiuse, le REMS non sono più carceri, perché la competenza è passata dal ministero di giustizia a quello della sanità.
La chiusura degli OPG e la nascita delle REMS non ha tuttavia reciso il legame tra psichiatria e reclusione. Anzi.
I prigionieri delle REMS sono sedati chimicamente, non possono uscire, spesso sono legati ai letti.
In carcere, già prima della nascita delle REMS, sono stati aperti repartini dedicati alle persone psichiatrizzate. Veri e propri manicomi all’interno delle carceri. Come i vecchi manicomi criminali sono luoghi dove, ancor più che nei reparti “normali”, vige l’arbitrio e la violenza delle guardie. Celle buie, materassi marci, gabinetti intasati, persone incapaci di muoversi e parlare perché sedate con dosi massicce di psicofarmaci. La gabbia chimica e quella di mattoni si uniscono in questi nuovi manicomi. Il manicomio si è polverizzato in tante e diverse strutture più piccole, ma la reclusione psichiatrica resta l’orizzonte concreto per moltissime persone.
Oggi un detenuto su quattro è in terapia psichiatrica, nel 2020 c’erano 174 persone rinchiuse in carcere in attesa di venire imprigionate in una REMS.
La contenzione fisica, dentro e fuori dal carcere è aumentata, mentre si allunga l’elenco delle persone morte, dopo essere rimaste legate mani, piedi e spalle al letto. L’ultimo morto di cui si ha notizia è rimasto per quasi tre settimane crocefisso alla sua branda nel repartino dell’ospedale di Livorno. Due anni fa Elena Casetto, inchiodata da legacci al suo letto, morì atrocemente, bruciata viva, prima che qualcuno intervenisse. Per questa vicenda atroce sono indagati i vigili del fuoco: gli psichiatri non sono mai entrati nell’inchiesta.
La contenzione fisica, che, assieme alla gabbia chimica, è una vera forma di tortura, è stata abolita in numerosi paesi europei. In Italia solo 17 ospedali su 320 hanno deciso di buttare legacci e corde.
Ne abbiamo parlato con Alberto del Collettivo antipsichiatrico “Antonin Artaud” di Pisa
La prossima assemblea del Collettivo Antipsichiatrico Antonino Artaud prevista per martedì prossimo è spostata a MERCOLEDI’ 1 DICEMBRE. Si svolgerà come sempre presso lo Spazio Antagonista Newroz in via Garibaldi 72 a Pisa alle ore 21:30
Collettivo Antipsichiatrico Antonin Artaud
via San Lorenzo 38, 56100 Pisa
antipsichiatriapisa@inventati.org
www.artaudpisa.noblogs.org 3357002669
alla TRASMISSIONE RADIO “MEZZ’ORA D’ARIA” PUNTATA SULLA CONTENZIONE
Sulla contenzione meccanica in psichiatria. Pratica di tortura nel servizio sanitario.
A Mezz’ora d’aria, trasmissione radio anticarceraria bolognese su Radio Città Fujiko, a ridosso del presidio contro la contenzione a Livorno, una puntata dedicata alla contenzione fisica nei reparti psichiatrici e una testimonianza sulla contenzione ospedaliera. Sotto il link per ascoltare la trasmissione.
https://www.autistici.org/mezzoradaria/puntata-del-13-novembre-2021/
SU RADIO ONDAROSSA INTERVISTA al Collettivo SENZANUMERO
Con una compagna del Collettivo SenzaNumero raccontiamo la due giorni avvenuta a Livorno contro la contenzione, partendo dalla situazione nei reparti ospedalieri e passando in rassegna le vecchie riforme in campo psichiatrico alla luce delle dichiarazioni del Ministro Speranza sulla fine della contenzione meccanica nel 2023. Sotto il link per ascoltare la trasmissione.
http://www.ondarossa.info/newstrasmissioni/silenzio-assordante/2021/11/dalle-giornate-lotta-contro