ZONE DEL SILENZIO

  • March 19, 2010 11:32 am

ZONE DEL SILENZIO


A CURA DI:
Collettivo Antipsichiatrico “Antonin Artaud”
artaudpisa.noblogs.org – antipsichiatriapisa@inventati.org


Collettivo Aula R – Scienze Politiche Pisa
aulaerre.noblogs.org – aular@autistici.org


Gruppo di discussione sul Carcere – Pisa
noalcarcerepisa@googlegroups.com


Associazione Aut-Aut
www.autautpisa.it – redazione@autautpisa.it


Osservatorio Antiproibizionista Canapisa
www.osservatorioantipro.org – canapisa@inventati.org


ZONA ROSSA – ZONA D’OMBRA- ZONA DELL’IMPUNITÀ – ZONA DEL SILENZIO
All’alba del 25 settembre di cinque anni fa un diciottenne, Federico Aldrovandi,
moriva a Ferrara pochi minuti dopo essere stato fermato dalla polizia. Solo la
coraggiosa presa di posizione della madre di Federico riusciva, in parte, ad alzare
il velo sui depistaggi, sull’occultamento di elementi probanti, sulle coperture,
sulle false versioni intorno alla morte del ragazzo.
Quella notte, mentre Federico urlava e moriva, mentre i manganelli dei custodi
dell’ordine pubblico si spezzavano sul suo corpo per la violenza dei colpi, chi
viveva lì intorno chiudeva le finestre e abbassava le tapparelle. Su un cartello lì
vicino campeggiava una scritta: “zona del silenzio”.
Checchino Antonini e Alessio Spataro sono
ritornati sul luogo del delitto e, dopo un
paziente lavoro di inchiesta, a distanza di
cinque anni hanno dato alle stampe un
fumetto, Zona del silenzio, che ricostruisce
l’assurda morte del ragazzo e il clima in
cui si è snodata tutta la vicenda. Un lavoro
importante, che getta uno sprazzo di luce
in uno dei tanti, troppi casi di violenze e di
uccisioni, di cui è tristemente costellata la
storia italiana, commesse e poi occultate dallo Stato e dai suoi servitori.
A Genova nel 2001 lo Stato ha rinchiuso, picchiato, torturato e ucciso. La verità
è sotto gli occhi di tutti, urla ma è muta, grida ma nessuno l’ascolta: nessuno
ha pagato, anzi i poliziotti sono stati promossi e l’esito dei processi alle forze
dell’ordine per i fatti di Genova dà solo l’idea di una dilagante impunità.
Nelle istituzioni totali italiane, come le carceri, i reparti psichiatrici, gli Ospedali
Psichiatrici Giudiziari, i Centri di Identificazione e di Espulsione per migranti,
tutti i giorni si verificano abusi e violenze, e i più elementari diritti umani sono
costantemente violati. In questi luoghi si lega, si picchia, si stupra, si tortura
e molto spesso si muore. Decessi che in molti casi accadono in circostanze
sospette, le cui cause rimangono oscure: gravissimi episodi che però suscitano
poco interesse nell’opinione pubblica e nei mass-media. E troppo spesso rimane
il dubbio su queste vicende, vere e proprie morti di Stato sulle quali è necessario
fare chiarezza.
Come nel caso di Marcello Lonzi, ucciso dentro le mura del carcere Le Sughere
di Livorno. Per avere verità e giustizia non sono ancora bastate le foto orrende
del suo corpo martoriato, la mobilitazione di centinaia di persone, sette anni di
appelli lanciati nel vuoto dalla madre di Marcello.
Carcere e repressione agiscono secondo livelli differenziati, dove vigono codici
non scritti e cavilli di ogni genere ideati per mortificare la vita del detenuto. Sul
carcere e sulla costruzione di sempre nuove strutture di detenzione, come i CIE
(centri per la detenzione amministrativa e l’espulsione dei migranti), si gioca
pure una importante partita speculativa dai risvolti non proprio limpidi.
Infine, anche il mondo del lavoro sta diventando una sorta di carcere. Tra
precarizzazione selvaggia e codici disciplinari sempre più repressivi, un vero
e proprio sistema da caserma si sta diffondendo tanto nel privato che nel
pubblico. La repressione è entrata a pieno titolo nei processi lavorativi, e non
solo nei termini tradizionali: si fa strada una violenza sempre più sottile, fatta di
stravolgimento, di annullamento del diritto.
Una società nella quale si finisce in galera solo per aver espresso le proprie
idee, nella quale si muore mentre si manifesta, o per aver avuto la sfortuna
di imbattersi in una volante della polizia; una società che coltiva la paura nei
confronti di chi è diverso, di ogni pensiero critico e di ogni comportamento non
conforme/deviante, non è una società libera. Le istituzioni totali continuano a
rimanere zone d’ombra, impenetrabili e lontane dagli sguardi di tutti, in cui è
possibile commettere ogni sorta di abuso avvalendosi di sicura impunità. Ma
il sistema autoritario non vive solo nelle istituzioni totali: si innerva nel tessuto
sociale, costituendo un modello per nuovi codici disciplinari e stravolgendo i
diritti conquistati in decenni di lotte. Ciò assume un particolare peso generale,
nel momento in cui questo modello autoritario diventa egemone nei rapporti
sociali e lavorativi. Ed è allora che la tematica repressiva non riguarda più ristrette
minoranze o soggetti isolati, ma diviene un problema per tutti noi.
Collettivo Antipsichiatrico “Antonin Artaud” – Collettivo Aula R – Gruppo discussione carcere
Associazione Aut-Aut – Osservatorio Antiproibizionista Canapisa


FERRARA, LA LINEA BLU SI ATTRAVERSA ALL’ALBA*
di CHECCHINO ANTONINI

Il capo dell’ufficio volanti indusse in errore la pm di turno. Le disse, più o meno,
che era il solito drogato e che c’avrebbe pensato lui. Non era il caso di alzarsi
a quell’ora dell’alba di domenica. Invece, davanti ai suoi piedi c’era Federico
Aldrovandi, ovvero il corpo di un diciottenne che, poco prima, s’era imbattuto
in un violentissimo e misterioso controllo di polizia. Certi giornali lo chiamarono
fermo di polizia, il Viminale intervenne a precisare: dovete dire controllo. Ma
intanto il ragazzino era morto. L’ufficiale di polizia giudiziaria non fece cenno
alla pm della violenta colluttazione, né dei timbri di manganello sul viso del
giovanotto. La pm lo leggerà su Liberazione e, poco prima, sul blog della mamma,
che Federico era stato ammazzato di botte, che se non avesse incontrato le
Pantere della polizia che lo sbranarono sarebbe ancora vivo. Ma intanto erano
passati tre mesi, s’era fatto Natale.
L’assistente Capo della Polizia di Stato, quella mattina, era responsabile e addetto
della centrale operativa. Parlava con un collega che era in Via Ippodromo che gli
spiegava per filo e per segno. Ma prima staccò la registrazione della telefonata.
Ha negato di averlo fatto, e non è stato creduto.
Hanno aiutato i quattro delle volanti a eludere le indagini. L’ispettore di polizia
giudiziaria non ha consegnato il registro delle chiamate di quella mattina.
Il primo s’è preso un anno per omissione di atti d’ufficio. Quello che staccò
la spina, dieci mesi per lo stesso reato più favoreggiamento. L’ultimo 8 mesi
per omissione anche lui degli atti d’ufficio. Resta il quarto, responsabile il 25
settembre 2005 dell’ufficio denunce, che non ha scelto il rito abbreviato, e che
è stato rinviato a giudizio per falsa testimonianza, omissione di atti d’ufficio e
favoreggiamento. L’ennesimo capitolo del caso Aldrovandi si aprirà il 21 aprile
al tribunale di Ferrara. Intanto, la pm di quella notte potrebbe fare altre mosse,
come querelare altri funzionari della questura, per continuare a scoperchiare
la macchina del depistaggio. Perché questa macchina ha operato per mesi. Ha
* Negli Usa la linea blu è il limite immaginario che gli sbirri attraversano quando compiono un sopruso
e dietro cui si ritirano quando vogliono evitare che si indaghi su di loro
intimidito i testimoni, ha imbavagliato i giornalisti, ha ingannato inquirenti e
genitori. Ha truccato brogliacci, nascosto prove, detto bugie e pronunciato
minacce. E forse agisce ancora. Sul blog, i genitori di Aldro ricordano «l’azione di
alcune pattuglie che, prima della grande manifestazione pacifica per chiedere
Verità e Giustizia ad un anno dalla morte di Federico, raccomandavano (contro
le disposizioni del questore, ndr) a bar e negozi di abbassare le serrande per il
pericolo di devastazione. Questo clima ostile era avvallato dalle parole di taluni
sindacalisti che difendevano ad oltranza i colpevoli. Il clima diffuso non è un
reato che si possa giudicare in tribunale, ma gli appellativi di “sciacalli” li abbiamo
subiti noi da parte di un sindacalista del sap, e molti agenti hanno sottoscritto
la solidarietà ai colleghi quando il processo era ancora lontano». Ma ci sono
altri capitoli: un amico di Aldro, una redattrice del manifesto e un mediattivista
sono sotto processo per aver detto che il verbale redatto il 25 settembre era
diverso dalle sue dichiarazioni e per aver divulgato la notizia dei “pre-colloqui”
dell’ispettore di pg con i testimoni prima che parlassero con la pm. E ventuno
frequentatori del blog sono stati denunciati dal questore dell’epoca troppo
preso a spulciare il blog per dare impulso alle indagini sull’omicidio.
Alle condanne del 5 marzo scorso si aggiungono le provvisionali di 10mila euro
che tutti e tre dovranno pagare a ognuna delle parti civili (il padre, la madre e il
fratello di Federico). Le pene sono inferiori a quelle chieste dal pm Nicola Proto,
colui che ereditò le indagin 
dalla pm di turno, quella che
fu ingannata ma che, prima
che il blog squarciasse il
velo del silenzio, non parve
aver impresso il dinamismo
necessario all’inchiesta. Proto
aveva previsto 1 anno e 4 mesi
per l’ufficiale di pg, 2 anni e
mezzo per il “centralinista”
e 1 anno e mezzo per
l’ispettore di pg. “Sconti”
che non diminuiscono la
soddisfazione dei genitori di
Federico e del pm per la tenuta dell’impianto accusatorio che ora dovrà reggere
il secondo grado di giudizio anche per il capitolo dell’omicidio (in primo grado i
quattro agenti sono stati condannati a 3 anni e mezzo).
Il procuratore capo Rosario Minna, s’è presentato a sorpresa in aula per cercare
di revocare la testimonianza della prima pm. Poi, sulla scia del suo predecessore
al tempo dell’omicidio, ha preso di petto i giornalisti e i giornali che si sono
permessi di seguire le inchieste, dicendo più o meno: «Guai a concedere spazio
alla fogna mediatica che ha contraddistinto il caso di Federico Aldrovandi, quel
poveraccio che è morto per strada». «Nostro figlio era un poveraccio? – hanno
ribattuto i genitori – Questo si merita per essere morto? in modo orribile, appena
maggiorenne?».
Il vecchio procuratore capo aveva provato a denunciare tutti i cronisti che si
stavano occupando dell’inchiesta, perfino i più prudenti tra i giornalisti locali.
Fu un fuoco di paglia spento dall’azione decisa del sindacato dei cronisti e dal
movimento per verità e giustizia che, intanto, aveva trovato compagni di strada
e alleati molto fuori Ferrara.


ESTENDIAMO LA SOLIDARIETÀ FUORI E DENTRO
CIE, CARCERI, REPARTI E OSPEDALI PSICHIATRICI

COLLETTIVO AULA R – SCIENZE POLITICHE – PISA

Come compagne e compagni del Collettivo Aula R crediamo che l’istituzione
carcere sia una tra le facce più crudeli di una società fondata sull’ingiustizia
e lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Privare della libertà, costringere
all’isolamento più totale, privare della lettura, degli affetti, della corrispondenza,
dei livelli minimi di socialità non può che essere brutale. Dall’altra parte ci sono
compagne/i, semplici carcerati, innocenti (se vuole dire qualcosa questa parola)
che, all’interno di strutture vocate all’inumano, non mollano mai, riescono a
costruire della solidarietà il più delle volte di classe, a mettersi in contatto con
compagne/i fuori dai recinti e dalle gabbie. Queste realtà, di inequivocabile
spirito rivoluzionario, non sono delle isole felici, sono il risultato di una coscienza
che si espande e trova terreno fertile dentro e fuori le istituzioni totali. La loro

voce sono riviste e percorsi di lotta, chi le sostiene non può che combattere il
sistema politico e economico in toto. Ma proprio per combattere ogni possibilità
di risposta, di organizzazione di forme di lotta, il sistema repressivo dello
Stato ha ideato diversi congegni: da durissimi regimi di detenzione a continui
spostamenti dei detenuti, dalla creazione di nuove aree di massima sicurezza
fino ai più spietati metodi di annientamento fisico e psicologico, la morte. Siamo
a conoscenza dei sistemi, più o meno moderni, di repressione totale (estensione
del 41 bis, regime EIV in Italia e FIES in Spagna, i nuovi circuiti AS1 AS2 AS3)
ma anche di quella repressione quotidiana che lo “Stato dei padroni” attua
sistematicamente: ci riferiamo in particolare alla condizione dei migranti, dei
proletari e sottoproletari costretti a “delinquere”, dei consumatori di sostanze,
ingabbiati o uccisi. L’Italia è lo Stato dell’impunità, in grado di difendere
strenuamente, e in maniera ancora più reazionaria se possibile, le differenze e
i privilegi di una classe sull’altra, degli sfruttatori sugli sfruttati. Reati come la
frode o la bancarotta vengono depenalizzati da chiunque vada al governo,
i capitalisti rischiano per tutti ma non pagano mai, vincono sempre. Dall’altra
parte, ancora una volta, anni di galera per aver rubato una mela o una banca …
per aver fumato uno spinello o essere di un’altra nazionalità. Come Collettivo
Aula R ci siamo fatti promotori sin da subito di un’iniziativa che, focalizzandosi
sul caso Aldrovandi, potesse, attraverso un piccolo opuscolo “multidisciplinare”,
toccare più situazioni di vita e di lotta. Abbiamo deciso di dedicare alla
tematica carceraria una rubrica nel nostro giornale L’INTERFERENZA; questo ci
permette di tenerci aggiornati sulle condizioni di vita nelle carceri o sui nuovi
“squallidi” progetti del turbo capitalismo odierno. Le ultime notizie ci dicono di
lobby di potere che non riescono (fortunatamente) a mettersi d’accordo sulla
privatizzazione delle carceri e che al contrario puntano unicamente a costruirne
di nuovi. E’ recente la notizia di una presunta volontà, ovviamente bipartisan,
di costruire uno di questi carceri superisolati (sul mare) nei pressi della costa
livornese. Le lobby di potere (pensiamo al cosi detto “partito del cemento” o al
comparto siderurgico) puntano unicamente a costruire nuove galere; lo Stato,
ormai un tutt’uno con le forze dell’economia, non ha alternativa al carcere
per combattere la disuguaglianza sociale. Non dobbiamo quindi stupirci se la
volontà di costruire uno di questi carceri superisolati come la costruzione di CIE
in Toscana, siano condivise dai vari schieramenti politici, che li considerano un
“necessario seguito” alle loro politiche di repressione. E’ chiaro che, sia questa
remota (ma non troppo) possibilità, sia la più reale evenienza della creazione di
un CIE nella regione Toscana, saranno due motivi di mobilitazione molto forti nei
prossimi mesi.


MORIRE IN REPARTO: storie di ordinaria psichiatria

COLLETTIVO ANTIPSICHIATRICO “ANTONINO ARTAUD”


L’attuale modello societario per un’efficiente governance ha sempre più la
necessità di ridurre le complessità espresse da ciascun individuo, di codificare
e stigmatizzare i comportamenti umani, dividendoli in buoni/cattivi e giusti/
sbagliati. La paura, ottimo collante sociale, è coltivata e diretta nei confronti di
chi è diverso, di ogni pensiero critico e di ogni comportamento non conforme/
deviante, che viene considerato elemento di disturbo e di pericolo, trasformato
in mostro immaginario: terrorista, drogato, violento, matto.
Il potere psichiatrico, come le altre istituzioni securitarie (forze dell’ordine, carceri,
CIE, OPG), non è che un ulteriore potente strumento repressivo e di controllo per
isolare, emarginare, contenere e normalizzare le persone che non si adeguano
all’ordine sociale dominante. Come non si mette in discussione l’operato delle
forze dell’ordine, ancor meno si mette in discussione quello della psichiatria,
il cui giudizio e metodo sono insindacabili grazie all’autorevolezza datagli
dall’essere considerata una scienza medica, nonostante sia priva di comprovate
basi scientifiche. In realtà questa falsa scienza, come le altre istituzioni totali,
abusa del suo potere sulle persone ed è anch’essa una zona di silenzio, una zona
d’ombra impenetrabile e lontana dagli sguardi della collettività, in cui è possibile
commettere ogni sorta di abuso avvalendosi di sicura impunità.
La psichiatria serve ad arginare qualsiasi critica sociale e a normalizzare quei
comportamenti ritenuti “pericolosi” poiché non conformi al mantenimento
dello status quo, al fine di estendere il controllo sociale e la possibilità di
intervento normalizzante da parte delle istituzioni. In questi anni la falsa scienza
psichiatrica ha notevolmente ampliato il proprio campo d’intervento. Invadendo
le nostre esistenze, sminuisce le
sofferenze umane riducendole
a disturbi biochimici della
mente, sempre più interpretati
come patologie genetiche
del soggetto. Se è vero che
assistiamo ad una sistematica
diffusione del disagio, è vero
anche che le cause vanno
ricercate nella società in cui
viviamo e nello stile di vita che ci
viene imposto, che esige sempre
più efficienza e concorrenzialità.
In cambio ci viene offerta una
precarietà sempre più diffusa che genera senso di inadeguatezza e ostacola
prospettive di emancipazione. Come risposta a ciò abbiamo la medicalizzazione
di quelli che sono gli eventi naturali della vita e di quei comportamenti non
conformi agli standard sociali. Le reazioni dell’individuo al carico di stress
cui si trova sottoposto vengono interpretate quali sintomi di malattia e le
risposte che riceviamo sono sempre dello stesso tipo: diagnosi-etichetta e cura
farmacologica.
Le pratiche e i dispositivi psichiatrici, che hanno portato alla morte di molte
persone in questi anni sono una diretta eredità dei manicomi, in quanto la legge
180, nonostante li abbia chiusi, ha però mantenuto inalterato il principio in base
al quale chiunque può essere arbitrariamente etichettato come “malato mentale”
e rinchiuso, anche solo perchè rifiuta di curarsi – o rifiuta la tipologia di cura
impostagli – attraverso il ricovero coatto (Trattamento Sanitario Obbligatorio) in
reparti specializzati e chiusi.
Con la chiusura dei manicomi, la psichiatria ha raggiunto più potere ed una
migliore accettazione sociale come scienza medica: essa è riuscita a sbarazzarsi
di camicie di forza, sbarre, e degli strumenti più violenti – nonostante continui
ad usare letti di contenzione ed elettroshock -, sostituendoli con cure massicce
ed obbligatorie di psicofarmaci, ma ha mantenuto le sue pratiche lesive della
libertà individuale.
Dal momento in cui viene presa in cura dal Servizio di Salute Mentale, il più delle
volte la persona finisce per perdere la propria autonomia, il proprio lavoro, la
gestione della propria vita, del proprio tempo, dei propri affetti, del proprio
corpo e la sua parola comincia ad avere sempre meno peso di fronte a quella di
medici e familiari. Se pensiamo che a questo si aggiungono i gravi problemi fisici
dovuti agli psicofarmaci – che tra l’altro provocano spesso ansia e depressione! –
o il trauma provocato da esperienze dolorose come un’interdizione, un TSO, la
reclusione immotivata, l’aggressività e le minacce subite in reparto, possiamo
capire il motivo dei tanti suicidi all’interno dei reparti o fuori.
Le grandi strutture manicomiali sono state dunque sostituite da più piccole
strutture capillarmente diffuse sul territorio, all’interno delle quali continuano
a perpetuarsi sia l’etichetta di “malato mentale” sia i metodi coercitivi e violenti
della psichiatria: come si moriva nei manicomi, si muore oggi nei reparti
psichiatrici e negli OPG, in circostanze sospette, oscure, che però non suscitano
alcun interesse nell’opinione pubblica e nei mass-media.
È però importante sottolineare come le morti in psichiatria non siano riconducibili
ad episodi di malasanità, termine che indica un dis-servizio, la mancanza di cure
da parte del sistema sanitario, ma al contrario sono tragiche conseguenze di
pratiche quotidianamente perpetrate all’interno dei reparti psichiatrici.
I TSO eseguiti spesso con violenza da forze dell’ordine e infermieri, così come il
legare al letto di contenzione un paziente sono prassi abituali, abusi che i pazienti
degli SPDC (Servizi psichiatrici di diagnosi e cura) subiscono regolarmente e che
a volte portano anche alla morte. Come nel caso di Francesco Mastrogiovanni
(morto il 4 agosto del 2009 a Vallo della Lucania) e Giuseppe Casu (morto il 21
giugno 2006 a Cagliari) deceduti entrambi all’interno di reparti psichiatrici, in
regime di TSO, dopo essere stati sedati farmacologicamente e legati al letto per
giorni senza essere monitorati dal personale. Oppure può accadere che persone
recatesi in reparto volontariamente siano poi trattenute tramite pressioni
psicologiche e la minaccia di un provvedimento di TSO. A volte l’opera di
persuasione è supportata dalla violenza fisica, come nel caso di Edmond Idehen,
morto in reparto a Bologna il 26/05/07 mentre infermieri e poliziotti tentavano
di legarlo al letto, in seguito alla sue insistenti e legittime richieste di lasciare
l’ospedale, visto anche che vi era entrato volontariamente.
Altra pratica di cui abusa la psichiatria è l’obbligo delle cure, che tra l’altro si
riduce ad un bombardamento farmacologico, di durata indeterminata e imposto
senza le dovute informazioni e i dovuti controlli medici. Di tali psicofarmaci
vengono quasi sempre taciuti i gravi effetti collaterali che possono causare
anche la morte, come nel caso di una donna palermitana, (A.S. morta il 28 agosto
2006 a Palermo) precedentemente entrata in coma a causa dei farmaci; come il
giovanissimo Roberto Melino (morto il 12 giugno 2007 a Empoli) che era entrato
volontariamente in reparto ad Empoli ed è stato “aggredito” chimicamente dopo
aver espresso la volontà di uscire; ed infine come Sorin Calin, morto a Montecatini
Terme il 20 ottobre 2009 durante il tragitto dalla caserma dei carabinieri al reparto
a causa della somministrazione di un ansiolitico, il Midazolam, controindicato in
caso di contemporanea assunzione di alcool, motivo per cui era stato fermato.
Sono tutti decessi attribuiti dalla psichiatria e dalla giustizia a cause naturali
(arresto cardiocircolatorio e/o respiratorio), nonostante la giovane età e il buono
stato di salute delle vittime prima del ricovero, ma non può che rimanere il
dubbio su queste vicende, vere e proprie morti di Stato sulle quali è necessario
fare chiarezza!
L’invito è a rompere il silenzio, a denunciare gli abusi psichiatrici perpetrati ai
danni di individui troppo spesso impotenti perché intrappolati nella solitudine
psichiatrica, a distruggere quei miti di cui la psichiatria si è circondata e a spezzare
il muro di silenzio che da sempre la circonda e la difende da attacchi esterni.


PIANO CARCERI:
CEMENTO, BUSINESS E CHIATTE GALLEGGIANTI

GRUPPO DI DISCUSSIONE SUL CARCERE – PISA

Affrontare in poche righe il tema carcere non è semplice, lo spazio non è
sufficiente a descrivere il vuoto e al tempo stesso la densità di questo non luogo
ai margini della società esterna, così rimosso dal sentire collettivo ed al tempo
stesso così legato alle dinamiche sociali e politiche esterne. Per questo ci pare
importante avviare, assieme ad altre realtà, un percorso a livello cittadino per
favorire la circolazione delle notizie e di iniziative sul tema carcerario e più in
generale della repressione.
La realtà del carcere in Italia è oggi tragica come mai prima, sopravvivono
con estrema difficoltà limitate esperienze carcerarie di tipo attenuato; prevale
invece largamente un’impostazione ad un tempo anticostituzionale ed illegale
della pena, si afferma e si consolida un trattamento detentivo che non recepisce
minimamente neppure le piccole aperture date dalla riforma penitenziaria di
metà anni “70. Prevale, cioè, un sistema autoritario di tipo “concetrazionario” e
metodi di repressione e annichilimento fisico e psichico degni di una dittatura.
In carcere si muore, si viene pestati per un nulla, si vivono condizioni di
assembramento disumane, per le quali decine di detenuti si sono rivolti alla Corte
Europea di Strasburgo. Lo Stato italiano, le forze politiche locali e nazionali fautrici
delle politiche repressive e securitarie, si rendono una volta più responsabili di
violazioni di diritti umani fondamentali riservate sistematicamente agli esclusi
da questo Sistema e dalla crisi generale in cui versa. Mentre si consuma la
putrefazione morale e politica delle istituzioni, in galera continuano ad essere
rinchiuse intere categorie sociali: i migranti, colpevoli in sostanza di esistere, i
consumatori di sostanze stupefacenti, chi si vede troppo spesso costretto ad
una vita di extralegalità e nell’impossibilità di costruirsi una esistenza ed un
futuro dignitosi.
La risposta alla crescente precarietà sociale continua ad essere quella
dell’emergenza e della repressione sociale e politica con lo sbocco obbligato
della galera. Mentre il ricorso alle misure alternative alla detenzione viene
sempre più disatteso dalla Magistratura di Sorveglianza e da cavilli infiniti (come
le norme sulla recidiva, l’art.4 bis e i regimi di detenzione speciale dei reparti
EIV e 41 bis riservati, tra gli altri, ai detenuti politici), l’unica risposta che pare
dare l’Esecutivo, in buona compagnia di molti politici un tempo di “sinistra”, è la
costruzione di nuove carceri secondo un modello di internamento di massa e di
criminalizzazione fine a se stesso.
Il proposito governativo di costruzione di nuovi centri di detenzione per
migranti, i cosiddetti CIE, e da ultimo il progetto (in fase avanzata di definizione)
di varare chiatte galleggianti dove costringere le migliaia di detenuti stipati a
forza nei penitenziari italiani, sono un esempio della tendenza prevalente e delle
conseguenze del crescente autoritarismo. Nel progetto in ipotesi queste chiattegalera
della lunghezza di 126 metri per circa 400 detenuti (ne sono previste dieci
per un costo unitario intorno ai 90 milioni di Euro), verrebbero ormeggiate in
alcuni porti (tra cui Genova, Cagliari e Livorno) ed è aberrante la descrizione
delle possibili ubicazioni alternative, si legge: arsenali e zone militari, e ancora,
strutture modulari che possono essere accorpate ed ampliate alla bisogna. Si
tratterebbe dunque di un nuovo modello “panoptico”, con al centro il punto di
osservazione ed intorno l’area destinata ai detenuti, celle e strutture di servizio,
il tutto racchiuso da un cordone di sicurezza. L’esperimento della nave galera fu
fallimentare in Inghilterra dove è stato sospeso proprio per gli aspetti insani ed
inevitabilmente angusti delle strutture.
Lascia pure sconcertati leggere i commenti e gli incoraggiamenti di diversi
tra i sindacati subalterni. CISL e UGL si dicono favorevoli e il segretario UILSiderurgico
Mario Ghini chiosa deciso: “costruire, come si pensa, cinque o sei di
queste piattaforme saturerebbe gli impianti per due anni, ci auguriamo che si
prenda una decisione nel breve periodo e le navi carcere si facciano”. Una misera
speculazione sulla pelle delle persone detenute e di chi si vede espulso dal
mondo lavorativo e da ogni sistema di tutela sociale; quando con minori risorse
potrebbe essere costruito un processo di risocializzazione e reinserimento per
migliaia di detenuti, reintroducendo magari le agevolazioni per il reinserimento
lavorativo degli ex-detenuti o dei condannati altrimenti esclusi da ogni misura
alternativa.
Su questi lugubri scenari pare tacere, invece, la politica “di sinistra”, indaffarata
com’è con le beghe del voto regionale (e con l’assenso di candidati e forze politiche
alla costruzione degli indigeribili Centri per la detenzione amministrativa dei
migranti, i famigerati CIE,
previsti tra le altre cose
pure in Toscana).
Mentre sempre più famiglie
vivono in condizioni di
miseria e di disperazione,
aumentano i business ed
i profitti di pochi, settori
economici legati a doppio
filo con le doppiezze del
capitalismo italiano e col
suo governo di destra,


IL PROIBIZIONISMO È UN SERIAL KILLER
OSSERVATORIO ANTIPROIBIZIONISTA


Stefano Cucchi è un ragazzo romano di 31 anni. Si trova rinchiuso nella camera
di sicurezza di un tribunale in attesa di essere giudicato. Gli hanno trovato un po’
di hascish e lui ha già precedenti. È pensieroso Stefano, sta pensando alla sua
famiglia, ai suoi amici, ai guai che lo attendono… È solo, rinchiuso in una gabbia.
Stefano sente un rumore, stanno arrivando degli uomini, o forse è meglio
chiamarli bestie che si avvicinano minacciosi: uno, due, cinque. Non possiamo
sapere quanti fossero. Ma sicuramente più di uno. Per quelli l’uomo rinchiuso
nella gabbia è un drogato di merda, un subumano e merita il trattamento…
cosicché parte il pestaggio. Stefano è magro, molto magro ed anche se ha
imparato a difendersi non può far altro che soccombere, quelli sono più di lui.
Anfibi di cuoio infieriscono su quel corpo esangue mentre quelli ripetono: – Sei
un drogato, sei un tossico di merda, non sei un uomo. –
Stefano in seguito al pestaggio finisce all’ospedale. Anche i medici lo
considerano un drogato, un subumano, una merda, lo lasciano nel suo lettino
abbandonato a se stesso, non merita neanche di essere visitato e curato. Non
gli viene concesso neanche il diritto di avvertire la sua famiglia. Così dopo una
lunga agonia Stefano muore.
ecco i beneficiari di questi progetti cantieristici ed edilizi per la concentrazione
e la detenzione delle persone e più in generale il cospicuo giro d’affari legato
all’industria della “sicurezza”. Lo scandalo della Protezione Civile (a cui si voleva
fino a poche settimane fa assegnare proprio la gestione del piano carceri)
mostra quel vasto intreccio di affari tra economia e politica, cosa che potrebbe
presto riprodursi con la costruzione delle chiatte galleggianti e di altri progetti
penitenziari basati sul cemento. Senza dimenticare tra l’altro gli ampi poteri, per
non dire assoluti, riguardo agli interventi di edilizia carceraria: quali appalti, quali
assegnazioni?
Il carcere, la legge e la sua sistematica violazione da parte di chi si erge a tutore
dell’ordine e della sicurezza. Una storia già vista che pare non avere fine.
14
Zone del silenzio
Il suo nome si aggiunge alla lista
dei cittadini morti, negli ultimi anni,
dopo essersi trovati a contatto con le
forze dell’ordine italiane, fermati per
qualche motivo o trasportati in carcere.
Ricordiamo alcuni casi:
• Federico Aldrovandi, 18 anni, morto
quattro anni fa per soffocamento e con
il corpo pieno di lividi, dopo essere stato
fermato da due volanti;
• Aldo Bianzino, falegname
pacifista, arrestato per il possesso di
qualche pianta di marijuana e morto
misteriosamente durante la prima notte
di detenzione;
• Stefano Frapporti, carpentiere, 50
anni, arrestato a Rovereto per pochi
grammi di hashish, morto in circostanze
tutte da chiarire.
Alcuni di loro erano ragazzi, altri padri di famiglia. Nessuno di loro aveva mai
fatto del male a nessuno, infatti tutti in qualche modo erano perseguiti per
reati connessi all’uso di sostanze stupefacenti. Questo per qualcuno giustifica
la fine che hanno fatto e la fatica assurda, disumana, affrontata da famiglie e
amici per cercare almeno di ottenere la verità. L’opinione pubblica è rimasta
spesso indifferente. Non esiste pietà per un drogato oppure la gente preferisce
distogliere gli occhi: troppo imbarazzante ammettere che le persone pagate per
difenderci finiscano per massacrare i nostri figli o i nostri amici..
Forse sembrerà sbagliato fare di tutta l’erba un fascio, ma secondo noi è
altrettanto sbagliato ridurre il problema della violenza poliziesca alla retorica
minimizzante delle ‘poche mele marce’. In primo luogo, inizia a nascere il
sospetto che non siano poi così poche; in secondo luogo, viene da chiedersi
di quale clima, di quale certezza di impunità, di quale cultura politica certi fatti
siano figli. Basta ascoltare le scandalose e menzognere dichiarazioni del ministro
Giovanardi per avere una risposta: Stefano è morto per colpa della droga

dice il ministro. Nossignori, non fatevi abbindolare da questa retorica vuota e
superficiale: Stefano, Aldo, Federico e i tanti altri che non sono assurti agli onori
della cronaca, sono stati giustiziati dallo stato.
Noi riteniamo che questi fatti siano un tragico esito delle politiche punizioniste e
liberticide che in nome della crociata antidroga limitano sempre di più le libertà
sociali ed individuali criminalizzando interi strati della società. In nome della
“santa guerra” alla droga, dell’odio per gli stranieri, per i gay e per tutti coloro
che decidono di vivere la propria vita diversamente si può sospendere ogni
elementare diritto ad un essere umano, si può persino decidere di restaurare la
tortura e la pena di morte.


IL SILENZIO DEI MEDIA
ASSOCIAZIONE AUT-AUT


Ferrara, settembre 2005: una pattuglia della polizia ferma per strada, di notte,
Federico Aldrovandi e, dopo averlo picchiato selvaggiamente, lo lascia senza vita
in terra. Tre mesi dopo l’uccisione del figlio, la madre di Federico apre un blog,
chiedendo che venga fatta luce su alcuni contorni oscuri di tutta la vicenda. Il
blog, con le immagini del corpo senza vita del ragazzo, in poco tempo è tra i più
cliccati in Italia. Intorno al caso si accende un dibattito che attira l’attenzione
di grandi media nazionali. E quello che all’inizio era sembrato il risultato di un
normale controllo della polizia su un “drogato”, si trasforma in una condanna in
primo grado per quattro poliziotti, con l’accusa di omicidio colposo. Anche se,
va detto, i quattro non hanno scontato un solo giorno di carcere, e continuano a
prestare servizio nella polizia di Stato.
Difficile trovare una conclusione simile sui tanti altri casi di uccisioni per
mano dello Stato. Una spessa coltre di silenzio o, che è ancora peggio, di
disinformazione, copre le uccisioni di Marcello Lonzi, Manuel Eliantonio,
Riccardo Rasman, Niki Gatti, Aldo Bianzino, e chissà quanti altri hanno perso la
vita all’interno delle mura di un carcere o per mano di uomini in divisa al servizio
dello Stato. E anche quando le storie di ordinario sopruso istituzionale hanno
l’onore delle prime pagine, è il momento in cui anche gli stessi rappresentanti
delle istituzioni ai più alti gradi scendono in campo e scatenano vergognose
campagne di disinformazione. Come il sottosegretario Giovanardi, per il quale
la morte di Stefano Cucchi era avvenuta in quanto il ragazzo era «anoressico,
drogato e sieropositivo». Succede allora che anche le più strampalate ipotesi
possono trasformarsi in verità processuali. Come Giuseppe Pinelli caduto dalla
finestra a causa di un “malore attivo”; come Carlo Giuliani, ucciso da un proiettile
deviato da un sasso lanciato da un manifestante.
Rimane il fatto che solo in rete, tra le pagine infinite dei blog e dei siti di
informazione autoprodotta, si può sperare di sollevare il velo delle zone del
silenzio: su quegli spazi territoriali e temporali cioè dove più è bassa l’attenzione
del grande pubblico e dove più è alto il livello di protezione da sguardi indiscreti
da parte delle istituzioni. È il lavoro di migliaia di individui e di collettivi che
raccontano storie, fanno inchieste, gettano sprazzi di luce su eventi che altrimenti
nessun altro mezzo di comunicazione di massa avrebbe il motivo, la voglia, il
coraggio di raccontare; e spesso a un livello qualitativo altissimo. Informazione
comunque di serie B, seguita da un numero sempre troppo basso di esploratori
della rete; ma che qualche volta riesce a bucare la spessa coltre di fumo che
sembra aver coperto e soffuso lo spirito critico di un’intera generazione, e
diventa di dominio pubblico, spesso con effetti incontrollabili.
Il caso Aldrovandi è esemplare anche per un altro ordine di ragioni. Checchino
Antonini e Alessio Spataro hanno raccontato la sua storia in Zona del silenzio
attraverso un altro mezzo di comunicazione, una forma di espressione artistica,
guarda caso, anche questa considerata di serie B: il fumetto. Genere sicuramente
non nuovo a incursioni di questo tipo tra le pieghe più inenarrabili e nascoste
della vita reale e della storia. Zona del silenzio appartiene a quel ricco filone di
fumetti contemporanei che, nella tendenza al graphic novel autobiografico e
storico nello stesso tempo, nello stile realista che non manca però di ricorrere
anche a tecniche grafiche e narrative quasi sperimentali, esprime in maniera
forte l’urgenza fondamentale di alzare il velo dalle zone buie dell’attualità, della
cronaca, della storia. Così opere come Maus di Art Spiegelmann, considerato il
capostipite di questa tendenza del fumetto contemporaneo; ma anche Palestina
di Joe Sacco, Tupac Amaru di Feropi-Dallosta; oppure le riviste: su web come
l’americana World War III Illustrated, che pubblica autrici come Nicole Shulman
(L’occupazione silenziosa); l’italiana Inguine cartacea e su web, che pubblica autori
come Andersson e Sjunnesson (Bosnian flat dog), Sergey Aniskov (Panikattack),
e che da sempre ha un occhio particolare su questo genere di produzione
fumettistica.
Ma dove sono i mass-media? Perché l’informazione sulle zone del silenzio è
relegata a mezzi di comunicazione che non hanno comunque la forza di imporsi
a livello di massa? Quali interessi relegano le storie più scomode nelle nicchie
della memoria, nell’attenzioni dei pochi? Dov’è la pubblica opinione?
I mass-media in una società come quella in cui ci è dato di vivere dovrebbero
in teoria svolgere una funzione importantissima e insostituibile: rappresentare,
tramite le informazioni che veicolano, il mezzo di lettura e di comprensione in
tempo reale della realtà; e di conseguenza favorire la formazione di attitudini
e convinzioni a livello di massa, la formazione cioè di un’opinione pubblica. La
sociologia del Novecento aveva collegato ai grandi mezzi di comunicazione, in
particolare alla stampa e alla televisione, l’appellativo di quarto potere, accanto
ai tre grandi poteri istituzionali della società borghese (legislativo, esecutivo e
giudiziario). Ma raramente, nel corso del Novecento, stampa e televisione hanno
agito da quarto potere, ovvero come potere a sé, più o meno separato dalle
influenze interessate delle grandi potenze politiche e/o finanziarie, funzionando
da “sentinelle” verso gli eccessi degli altri poteri; e ciò è accaduto soprattutto
nei paesi anglosassoni di grande tradizione liberale. Come quando cioè, per fare
qualche esempio, i grandi reportages in Vietnam, grazie al coraggio di alcuni
cronisti in prima linea che spesso pagavano con la vita la loro ricerca di verità,
offrivano al mondo le immagini degli orrori compiuti dall’esercito americano,
sollevando l’indignazione dell’opinione pubblica e contribuendo direttamente
alla fine di una guerra spaventosa e crudele. O come quando due giornalisti del
Washington Post negli anni 70 rivelarono i retroscena del cosiddetto scandalo
Watergate, portando all’impeachment del potentissimo e intoccabile presidente
degli Stati Uniti Nixon.
Occorrerebbe ragionare a lungo sull’effettivo grado di libertà dei mass-media
dai poteri forti, o sul ruolo dell’informazione in generale nelle società liberali
e borghesi del Novecento, e nel tardo capitalismo post-novecentesco. Non è
questo l’intento di questo breve intervento. Basti ricordare che qui, in Italia, e
ora, in questo primo scorcio del secondo millennio, carta stampata e televisione
non costituiscono in alcun modo, e forse non hanno mai costituito, un potere

separato e dotato di un benché minimo ambito di indipendenza e di senso
critico autonomo; ma, al contrario, stampa e televisione, quella stampa e quella
televisione ai quali è ormai da tempo demandata totalmente la formazione
dell’opinione pubblica e del senso critico, nel momento in cui le altre “agenzie
formative”, scuola in primis, sono in pieno collasso economico e di credibilità;
quella stampa e quella televisione sono ormai totalmente ridotte a megafoni dei
poteri forti: l’informazione, quando non è occultata e manca totalmente (le zone
del silenzio del bellissimo titolo dell’opera che qui presentiamo), per paradosso
disinforma: mistifica, manipola, inganna, raggira. Gli operatori dell’informazione,
sottoposti al ricatto del potentato di turno a cui l’agenzia informativa deve la
propria sopravvivenza economica e/o politica, presentano una lettura della
realtà “onestamente” improntata sugli interessi del proprio datore di lavoro
o riferimento politico-istituzionale. Nell’Italia degli Andreotti e delle stragi di
stato nessun watergate ha mai avuto luogo; mai i mass-media hanno avuto un
ruolo nello smascherare le malefatte dei potenti. E ora meno che mai, nell’era
del presidente-padrone dell’informazione – l’informazione diffusa, quella che
davvero forma la pubblica opinione.
In Italia non sono (e non lo sono mai stati) i grandi mezzi di informazione di
massa a far luce sulle zone del silenzio. Con l’avvento della Seconda rivoluzione
industriale anche in Italia l’informazione ha cominciato a divenire quel
fenomeno di massa che oggi conosciamo nelle sue estreme conseguenze.
Nei primi anni del Novecento nascono quasi tutte le testate che ancora oggi
padroneggiano il mondo della carta stampata, e tutte fanno riferimento alle
grandi potenze economiche o subiscono uno stretto controllo istituzionale.
In Italia poche testate, legate perlopiù alle prime organizzazioni anarchiche e
socialiste, stampate in tirature limitate e con mezzi di fortuna, sono le uniche
portavoce dello sfruttamento e dei soprusi a cui le classi subalterne venivano
continuamente sottoposte*. Ed è solo nel secondo dopoguerra che l’idea
di una informazione-contro comincia a diventare pratica attiva di diverse
e agguerrite formazioni militanti, e a conoscere una più estesa diffusione
nel territorio nazionale. A partire dagli anni 60, e sempre di più dopo il 68, le
È solo grazie al paziente lavoro di conservazione svolto dagli archivi di movimento (a Pisa la
Biblioteca Franco Serantini) che queste rare e preziose testimonianze della resistenza culturale in
Italia non sono andate definitivamente perse.
pratiche parallele della contro-cultura e della contro-informazione producono
miriadi di pubblicazioni: dai volantini ciclostilati in proprio ai numeri unici, alle
pubblicazioni dalla breve serialità, ai giornali e alle riviste di più larga tiratura.
Sotto questo aspetto gli anni 60 e ancora di più gli anni 70 rappresentano
un episodio irripetibile. Le tirature, ad esempio, di un quotidiano come Lotta
continua, la distribuzione di canali non-cartacei di informazione dal basso come
le radio private di movimento, testimoniano di una diffusione di massa di quella
che in quegli anni veniva chiamata contro-cultura e contro-informazione: per la
prima volta un po’ di luce illumina le zone del silenzio e forma lo spirito critico di
un’intera generazione, che per quasi un ventennio scende in piazza, in massa, a
reclamare i propri diritti e a imporre il proprio punto di vista di classe, fino a quel
momento, subalterna.
Ma tutto ciò non bastò a infrangere definitivamente il muro di gomma che
circonda le zone del silenzio. Un esempio illuminante: subito dopo l’attentato di
Piazza Fontana del dicembre 1969 un collettivo di giornalisti autonomi diede
alle stampe, per una piccola e sconosciuta casa editrice, La strage di stato, il libro
simbolo della contro-informazione. Con i pochi mezzi di un lavoro totalmente
autoprodotto, gli autori mostravano al mondo una verità che ormai è sotto
gli occhi di tutti: la bomba era stata collocata nella tristemente famosa Banca
dell’Agricoltura da una mano fascista con l’obbiettivo di inaugurare il metodo
della “strategia della tensione”: creare il caos nel paese in modo da permettere
alle istituzioni italiane, conniventi, di usare la mano pesante contro un
movimento che ormai dilagava, a livello di massa, nelle scuole, nelle fabbriche e
nelle piazze. Il testo ebbe una diffusione altissima e diverse edizioni. Non bastò,
sembra, la consapevolezza condivisa, neanche a quel livello irripetibile ai giorni
nostri: a distanza di 40 anni, nessuna aula di tribunale ha mai avuto il coraggio di
ammettere una verità ormai palese, e i morti di Piazza Fontana sono ricaduti in
una delle tante zone del silenzio, senza ottenere giustizia.
Dalla sconfitta storica dei movimenti post-sessantotteschi discende direttamente
il panorama dell’informazione e della cultura underground. Dai piccoli ambiti di
resistenza degli anni 80, spesso gravitanti nei circuiti dei centri sociali, ma anche
tra le etichette discografiche autoprodotte, o nel giro di riviste o case editrici,
un sottobosco spesso anonimo di produttori di fanzines, di gruppi punk dalla
fulminante carriera, di fumettari sperimentatori e avanguardistici nel disegno
e nei testi raccolgono i resti della contro-cultura degli anni 70 e ne conservano,
spesso con risultati strabilianti, la carica sovversiva. Sono prodotto di nicchia da
e per quei pochi (e fieri della propria diversità) sopravvissuti al crollo dei grandi
ideali, che non vogliono lasciarsi contagiare dall’aria malefica di quegli anni,
dall’individualismo conformista e dallo yuppismo, lontani e anzi fieramente
avversi a una produzione di massa e all’idea stessa di opinione pubblica. Pochi
quelli che tentano la carta della grande diffusione. Tra tutti, Frigidaire, mensile di
fumetti e attualità che, unico nella piattezza generale dei giornali e delle riviste
che in quegli anni possono trovare posto in un’edicola, prova a sollevare il velo
sulle zone del silenzio e si inventa servizi memorabili sulle guerre di camorra, con
paginate intere di foto truculente dei morti ammazzati nella guerra cutoliana,
o sull’uso corretto dei funghi allucinogeni in Messico o, entrando direttamente
nei campi di battaglia, sulle guerre dimenticate in giro per il globo, come in
Afghanistan. Svelando al mondo, nel frattempo, i geni fumettistici visionari di
Pazienza, Liberatore, Mattioli, Tamburini, Scozzari.
Ultimi echi o prime manifestazioni di ciò che verrà? Gli anni 90 vengono
sconvolti dalla comparsa di un nuovo mezzo che innesca una rivoluzione
dell’informazione, i cui confini sono ancora ben lungi dall’essere individuati. La
rete, internet, apre possibilità inaudite, e tutti possono essere osservatori e nello
stesso tempo partecipanti della comunicazione globale. Ed è ancora ai margini,
nei centri sociali e nelle zone temporaneamente autonome di tutti i tipi, che
si compiono i primi tentativi di sfruttare appieno le opportunità di sviluppare
un’informazione dal basso che faccia da contraltare ai mass-media raccontando
le storie dei senza storia, sparando fasci di luce sulle zone del silenzio. Il primo fu
Ecn (European Counter Network) – Isole nella rete nella prima metà dei 90, che nei
primissimi anni di diffusione di internet promosse una rete di comunicazione e
di informazione fra diverse realtà del movimento. E poi Indymedia, ai margini dei
grandi sommovimenti sociali che gravitano intorno alle proteste contro il G8, a
Seattle, a Napoli, a Genova. E poi ancora – è storia di oggi – i fruitori, in continua
ascesa, di social network e i bloggers: individui o collettivi diffusi sul territorio in
seguito all’implosione dei grandi nodi della controinformazione. Ancora prove
tecniche di trasmissione, che stanno segnando comunque un’intera generazione
stanca dell’informazione dei giornali e delle tv ufficiali, lasciando intravedere
potenzialità che sarà opportuno sfruttare con tutta l’intelligenza possibile.